Molto bene, pensò mentre riavvolgeva il nastro. Nessuna traccia di Gina, nessuno a ficcanasare in giro, né a tentare di riaprire il cassetto della scrivania. Pregava che fosse così ogni volta che avesse rivisto quel nastro.
L'ultima cosa al mondo che avrebbe voluto era fare del male a Gina.
31.
MARTEDÌ
«Su, Oliver», esclamò Gina. «Ora basta con i segreti. Devi dirmi che cosa sono venute a fare quelle persone qui ieri.»
Era martedì mattina.
Con i guanti e le maschere, stavano riempiendo gli innesti per gli interventi della giornata, giù nel laboratorio di Oliver. Gina aveva passato gran parte della notte a lambiccarsi il cervello per trovare il modo di scoprire l'identità del dottor V. e dei suoi misteriosi accompagnatori.
«Non posso, Gina, davvero», rispose Oliver. «Duncan mi ucciderebbe.»
Espressione infelice, pensò Gina, che le metteva i brividi addosso. Duncan non avrebbe ucciso nessuno. Adesso ci credeva, voleva crederlo.
«Non essere ridicolo, sei suo fratello. Inoltre, ha bisogno dei tuoi innesti», aggiunse Gina strizzandogli l'occhio.
Oliver alzò gli occhi al cielo. «Grazie. Questo è un toccasana per la mia autostima.»
«Sul serio, Oliver, questa storia mi sta facendo diventare matta. Ho visto questo dottor V. entrare e uscire di qui almeno tre volte, e sono sicura di averlo già visto da qualche altra parte. Dimmi soltanto chi è. Non quello che è venuto a fare, solo il suo nome. Soltanto questa piccola cosa, e non ne farò parola con nessuno, te lo giuro.»
«Mi dispiace, Gina, ma...»
«Starnutirò su tutti i tuoi innesti», minacciò Gina.
«No! Non oserai...»
Gina tirò su con il naso. «Oh, oh. Sento che ne sta arrivando uno. Sta aumentando. Di sicuro mi uscirà dalla maschera!»
«Gina, per piacere, non scherzare vicino a...»
«Sta arrivando. Ah... ah...»
«Va bene, va bene, ma smettila.»
«Okay, è passato. Per il momento. Adesso dimmi, chi è il dottor V.?»
«Veramente non dovrei. Ho promesso a Duncan che non avrei detto una parola.»
Gina tirò nuovamente su con il naso. «Oliver...»
«D'accordo, d'accordo. Ma solo il nome. Se poi non ti dice niente, tanto peggio. Va bene?»
«Va bene.»
Oliver si sporse in avanti e Gina gli poté leggere negli occhi che stava letteralmente morendo dalla voglia di confidarsi con qualcuno.
E lei gli aveva offerto una scusa per farlo.
«Si chiama VanDuyne. Dottor John VanDuyne.»
VanDuyne... Gina l'aveva già sentito. Quel nome le scorrazzava nei meandri della mente, doveva solo agguantarlo. VanDuyne. .. John VanDuyne...
Poi all'improvviso lo inquadrò: un relatore ospite al seminario sulla politica sanitaria tenutosi a Tulane. Un medico venuto da Washington, che le era sembrato a disagio sia come relatore, sia nel ruolo che ricopriva al governo. John VanDuyne, uno degli alti papaveri del Ministero della Sanità... Ma c'era dell'altro. Aveva sentito menzionare il suo nome a proposito di qualcos'altro. Dottor John VanDuyne...
«Oh mio Dio!» urlò all'improvviso. «Duncan opererà il Presidente!»
Oliver si strappò la maschera e si abbandonò sulla sedia. Si passò le dita nervosamente tra i pochi capelli. «Oh, no! L'ho fatto!» esclamò.
«Ho ragione, vero?»
Oliver annuì con rassegnazione
«Non credevo che ci saresti arrivata così in fretta. Come ci sei riuscita?»
Quando si era ricordata che VanDuyne era il medico personale del Presidente, le era parso ovvio che gli uomini che lo accompagnavano dovevano essere dei Servizi Segreti. E il modo in cui guardavano in giro, studiando le entrate e le uscite, controllando la vista dalle finestre... Per quale altra ragione avrebbero dovuto fare una ricognizione, se non per un'imminente visita del Presidente?
Ma non si sentì affatto felice per la sua fulminea deduzione; anzi, sentiva un crescente e sgradevole rimescolamento nello stomaco.
Il Presidente degli Stati Uniti stava per andare sotto i ferri di Duncan. Dopo quello che aveva visto il giorno prima, avrebbe dovuto sentirsi fiera che Duncan fosse stato scelto dal Presidente in persona. Ma era terrorizzata.
«Viene qui venerdì?»
Oliver annuì nuovamente. Sembrava un cane bastonato.
Questo spiegava il giorno di ferie pagato.
«Per che tipo di operazione?»
«Agli occhi», spiegò Oliver. Infilò le punte degli indici sotto gli occhiali e si toccò le palpebre inferiori. «Vuole sbarazzarsi delle borse sotto gli occhi. E anche sollevare un po' le palpebre superiori.»
«Ma quelle borse sotto gli occhi sono diventate la sua caratteristica! Come faranno i caricaturisti senza di loro?»
Oliver scrollò le spalle. «A quanto pare, i curatori della sua immagine hanno convenuto che le sue borse sono diventate troppo gonfie, e la gente pensa che il Presidente abbia un'aria stanca e invecchiata.»
«È il mestiere di Presidente degli Stati Uniti che riduce in quello stato.»
«Vogliono i voti dei giovani. È quello che l'ha fatto vincere la prima volta. Ritengono che le borse sotto gli occhi gli diano un aspetto stanco e vecchio, quindi devono scomparire.»
«Ma è ridicolo. Le elezioni ci saranno tra più di un anno.»
«Non le primarie. L'aspetta una grossa sfida, perciò vuole presentarsi al meglio.»
«E perché Duncan?»
«Perché no? È il migliore. Specialmente con questi», aggiunse indicando il vassoio con gli innesti.
Gina doveva ammetterlo, Oliver aveva ragione. «Ma perché tutta questa segretezza?»
«Be', mi sembra ovvio, no? Il Presidente non vuole che nessuno, e tantomeno la stampa, lo venga a sapere. Arriverà qui all'alba di venerdì, e non appena si sarà risvegliato dall'anestesia lo porteranno in tutta fretta a Camp David per un lungo fine settimana di riposo. Indosserà occhiali scuri per tutto il week-end, e quando rientrerà non ci sarà alcuna traccia dell'intervento. Qualsiasi piccolo segno rimasto verrà coperto con del trucco. A prova di bomba, non trovi?»
«Certo», confermò Gina lentamente. «A prova di bomba.»
Ma era a prova di Duncan?
Alt! si disse. Non avrebbe dovuto pensare cose simili.
«Ma come opererà Duncan senza il suo staff?»
«Portano con loro un famoso anestesista dall'ospedale della Marina di Bethesda, e ci sarà anche il dottor VanDuyne.»
«E gli uomini dei Servizi Segreti staranno di guardia nell'atrio, suppongo.»
«Giusto. Non è eccitante?»
«Sì, molto eccitante.»
Per la verità Gina si sentiva più agitata che eccitata. Sapeva bene quello che Duncan pensava del Presidente: quante filippiche si era già sorbita sull'argomento? Eppure Duncan aveva accettato di fargli un ritocco alle palpebre... Aveva accettato di eseguire un intervento che doveva dare al Presidente un piccolo vantaggio in vista della sua rielezione.
Non le quadrava. Perché Duncan avrebbe dovuto fare qualcosa per quell'uomo? Solo perché era il Presidente degli Stati Uniti, e glielo aveva chiesto? Forse. Il potere ha un effetto magnetico sulla gente.
Prendiamo Oliver, per esempio: era felice come un ragazzino, completamente fuori di testa all'idea che un suo innesto sarebbe stato usato sul Presidente in persona.
Di che cosa si preoccupava? Anche se Duncan avesse avuto in mente qualcosa, come poteva farlo con i Servizi Segreti che controllavano ogni suo movimento? Ma nella sala di rianimazione, dopo l'operazione... L'avrebbero controllato anche lì?
Probabilmente no.
Perché continuava a pensare quelle cose? si chiese. Doveva smetterla. Il giorno prima aveva visto un lato della personalità di Duncan che credeva non esistesse più. Si era ripromessa di cambiare il suo atteggiamento nei suoi confronti. E ci sarebbe anche riuscita, se non fosse stato per quella dannata fiala di TPD.
Chissà se era ancora dove aveva visto Duncan nasconderla...
C'era un solo modo per scoprirlo.
Ora o mai più, si disse Gina.
Avrebbe voluto telefonare a Gerry e raccontargli le ultime novità, ma si trattenne pensando a come erano andate le cose l'ultima volta che gli aveva parlato dei suoi sospetti. La loro relazione era arrivata a un punto di rottura, o forse lui l'aveva già rotta senza neanche farglielo sapere. Non l'aveva più sentito dal venerdì precedente.
Duncan era fuori per il pranzo, e Barbara si era allontanata dalla sua scrivania. Gina s'infilò nell'ufficio di Duncan e si diresse immediatamente verso lo scaffale. Ricordava che il flacone era stato messo nella sezione più a sinistra, sulla mensola più alta. Ma per lei era troppo alta.
Diede un'occhiata intorno per trovare qualcosa su cui arrampicarsi, e vide un piccolo sgabello sotto il lavabo. Proprio quello che le ci voleva. Non l'aveva mai notato prima d'ora; probabilmente perché non aveva mai cercato qualcosa su cui salire. Lo prese e ci salì sopra. Ora arrivava con gli occhi al livello della mensola più alta.
Ripensò alla sera di domenica, fuori al freddo a spiare Duncan. Il libro che aveva visto era piccolo e largo, rilegato in verde: eccolo lì, proprio di fronte a lei. Lo sfilò e scrutò con attenzione nello spazio scuro rimasto vuoto. La luce del giorno che arrivava dalla finestra alle sue spalle si rifletté sul vetro della fiala che ormai conosceva fin troppo bene. Era lì, a pochi centimetri da lei. Ma adesso, che fare?
Perché non la prendi? sussurrò una voce dentro di lei. Prendi quella dannata fiala, aprila e versa il contenuto nel lavandino. Duncan avrebbe passato giorni, settimane a chiedersi che cos'era successo, e con questo?
Una volta eliminato il TPD, lei non avrebbe avuto più nulla di cui preoccuparsi.
A meno che non ci sia un'altra fiala in giro.
Ma che senso aveva chiederselo? Quella era l'unica fiala che lei conosceva. E dunque era quella che doveva sparire.
Gina stava per afferrarla, quando udì un grido soffocato alle sue spalle.
«Oh Gesù!»
Trasalì e quasi perse l'equilibrio mentre si girava. Barbara era in piedi al centro dell'ufficio, con una mano appoggiata sul petto.
«Mi hai quasi fatto venire un infarto!» le disse Barbara. «Dottoressa Panzella, devi avvisarmi prima di entrare qui dentro.»
«Mi dispiace», rispose Gina, sperando che non fosse troppo evidente quanto si sentisse imbarazzata e scossa. «Non eri alla scrivania, e io avevo bisogno di controllare una cosa.»
«Assicurati soltanto che lui sappia che sei stata qui.»
«Cosa intendi dire?»
«Ci tiene molto che ogni cosa sia al suo posto. Perciò, è meglio che tu l'avverta prima di prendere qualcosa in prestito, altrimenti mi sentirò le mie!»
Gina sollevò il libro verde.
«Okay, Barbara. Guarda.» Con ostentazione rimise il libro a posto. «Voilà. Rieccolo al suo posto.»
«Benissimo. Lo sai, è così scrupoloso per i dettagli.»
Gina scese dallo sgabello e lo rimise sotto il lavandino.
«È questo che fa di lui un grande chirurgo», commentò. «Si preoccupa dei dettagli.»
Barbara posò dei fogli sulla scrivania di Duncan, poi uscirono entrambe, mentre Gina lanciava un'ultima occhiata preoccupata verso il libro verde sulla mensola più in alto.
Domani avrebbe probabilmente avuto un'altra possibilità. A meno che Duncan per qualche motivo non spostasse di nuovo la fiala.
Oh, no.
Duncan si sentì agghiacciare mentre osservava lo schermo. Rabbrividì.
La videocassetta mostrava Gina che entrava nel suo ufficio alle 12 e 17, trascinava lo sgabello vicino allo scaffale, ci saliva sopra ed estraeva il libro che nascondeva il TPD. Non aveva avuto la minima esitazione: sapeva benissimo dietro quale libro doveva cercare.
Ma come faceva a saperlo?
Gli venne l'impulso di correre allo scaffale per controllare immediatamente se la donna aveva portato via il flacone, ma non riuscì a muoversi.
Rimase impietrito a fissare lo schermo.
La vide sbirciare nello spazio lasciato vuoto dal libro e sporgere la mano per prendere la fiala, poi vide arrivare Barbara.
Grazie a Dio c'era Barbara!
Le loro voci erano smorzate, ma riuscì ugualmente a comprendere le scuse di Gina e il commento di Barbara su quanto lui fosse scrupoloso. Poi vide il libro ritornare al suo posto e le ragazze uscire. Ma vide anche Gina voltarsi a guardare pensierosa la libreria.
Sarebbe tornata, dannazione, sarebbe tornata!
Fece avanzare velocemente il resto della cassetta, ma quel giorno Gina non era tornata. Questo almeno lo confortava. Schiacciò il tasto per riavvolgere il nastro e controllò dietro il libro: sì, la bottiglietta c'era ancora. Ma come, come aveva fatto Gina a sapere che l'aveva messa lì?
Mi ha visto.
Certo. Lo aveva seguito il giorno prima, al D.C. General Hospital, probabilmente lo seguiva sin dall'insuccesso del venerdì.
Si girò intorno e guardò fuori attraverso la grande vetrata. Se l'aveva pedinato, domenica sera, poteva essersi nascosta fuori nell'oscurità, tra gli arbusti, a osservare ogni sua mossa. Improvvisamente gli venne in mente che poteva essere là fuori a spiarlo anche in quel momento.
Ma no, si rassicurò.
Sin dal loro incontro del giorno prima in ospedale era stato in guardia, teneva costantemente d'occhio lo specchietto retrovisore, tanto che per poco non aveva causato diversi incidenti. Quel giorno nessuno l'aveva seguito.
Ma perché aveva controllato dietro il libro solo oggi, e non ieri? si chiese. Cos'era successo, oggi, per riaccendere i suoi sospetti?
Fece avanzare il nastro fino al punto in cui Barbara e Gina stavano uscendo, e fermò l'immagine sull'ultimo sguardo lanciato da Gina. Aveva un'espressione ansiosa. Non c'era dubbio, qualcosa la rendeva apprensiva.
Un pensiero lo fece sobbalzare: poteva essere venuta a sapere del Presidente?
Dio mio, se l'aveva saputo avrebbe potuto fare qualcosa di avventato, qualcosa di catastrofico. Alzò il telefono e compose il numero di suo fratello.
«Oliver», esordì senza indugio, «Gina ti ha detto niente sul caso speciale di venerdì?» Si premurò di non nominare il Presidente per telefono.
«Co... cosa intendi dire?»
L'esitazione nella voce di Oliver diede a Duncan un terribile presentimento.
«Ha idea di chi si tratti?»
«Sì, lo sa. L'ha indovinato.»
«Come ha fatto a...?»
«Ha riconosciuto il dottor VanDuyne, poi ha dedotto che le persone al suo seguito erano dei Servizi Segreti. Dopodiché è stato facile, come fare due più due, suppongo.»
«E tu lo hai confermato?»
«Cos'altro potevo fare?»
«Dannazione, Oliver. Per tutti i diavoli!»
«Duncan, le ho fatto giurare di mantenere il segreto. Sai che puoi fidarti di Gina. Non è stato meglio confermare i suoi sospetti, piuttosto che lasciarla andare in giro a curiosare e a fare delle domande?»
«Sì, può darsi.» Tenne a freno la sua collera. Oliver non aveva idea del perché fosse così importante tenere Gina all'oscuro di tutto. «Quando è avvenuta questa conversazione?»
«Questa mattina, pressappoco verso le undici. Perché?»
«Niente. Ci vediamo giovedì.»
Interruppe la comunicazione e iniziò a passeggiare per la stanza. Si fermò solo per schiacciare il tasto REWIND del videoregistratore.
Dannazione! Gina aveva avuto la conferma da Oliver alle undici, e un'ora più tardi era già arrivata lì intenzionata a mettere le mani sul TPD.
L'occasione di tutta una vita! Il Presidente in persona, il comandante in capo della cachistocrazia, avrebbe dormito come un angioletto in una stanza al piano di sotto. L'uomo che da solo aveva risuscitato il programma sulle Direttive, che aveva insistito per includere l'etica medica nel testo di legge, e che avrebbe tenuto sotto pressione la Commissione per farle fare fino in fondo il suo sporco lavoro!
E con questo? si ritrovò a pensare Duncan. Non ha niente a che fare con la morte di Lisa. Perché non lasciarlo andare e accontentarmi di quello che ho fatto finora?
Perché non posso. Non ancora.
Era fuori del suo stesso controllo, e lo sapeva. Si sentiva come un treno sfuggito al conducente che sbanda in discesa. McCready aveva iniziato, e Duncan avrebbe finito. Non poteva lasciarsi sfuggire questa occasione, non ne avrebbe mai avuta un'altra simile. Avrebbe imposto un'armonia a questa follia... Avrebbe chiuso il cerchio con il Presidente.
Ma Gina Panzella stava per rovinargli tutto. Poteva leggerglielo in faccia, se lo sentiva nelle ossa. Stava per immischiarsi di nuovo. E lui non poteva permetterlo. Non questa volta.
Il videoregistratore sputò fuori la cassetta. Duncan la prese e la fissò.
Perché, Gina? Perché ti ostini a ficcare il naso dove non dovresti?
La sua rabbia cresceva, si sentiva la testa e il torace come se stessero per scoppiargli. Gina gli aveva lasciato solo due scelte: o abbandonare tutto o neutralizzarla in qualche modo.
Gemette. L'aveva spinto in un angolo, e l'unica possibilità rimastagli era di metterla fuori combattimento. Le avrebbe fatto del male. E si detestava per questo.
Con un grido scagliò la videocassetta per terra e la mandò in frantumi con il tacco della scarpa.
«Va' all'inferno, Gina!»
32.
MERCOLEDÌ
«Ti ho tenuto in serbo qualcosa d'importante, Gina. E questa mattina ho deciso di rivelartelo», le stava dicendo Duncan.
Gina gli sedette di fronte al di là della scrivania, sorseggiando una tazza di uno dei suoi caffè esotici, Jamaican Blue Mountain le pareva di aver capito, ma era troppa tesa e preoccupata per badarci. Aveva passato quasi tutta la notte a ripensare all'operazione del Presidente. Doveva preoccuparsi? Doveva fare qualcosa? Doveva chiamare Gerry e dirglielo? No, non era proprio il caso di coinvolgere Gerry. Aveva in mano ancora meno prove dell'altra volta, e già lui la considerava una visionaria; meglio non gettare altra benzina sul fuoco.
Stava ancora considerando il prossimo passo da fare, quando Duncan l'aveva chiamata nel suo ufficio, dicendo a Barbara che non voleva essere disturbato, e poi aveva chiuso la porta. Le aveva messo in mano una tazza di caffè e l'aveva invitata a sedersi.
Così adesso era seduta di fronte a lui, tesa e rigida sulla sedia, con il caffè che le scaldava le mani, ansiosa di vedere che cosa sarebbe successo.
«Poiché sei un medico, tieni presente che quello che sto per dirti rientra nel rapporto deontologico tra medico e paziente. È chiaro?»
«Certo.»
«Bene. Ti sarai chiesta perché ho dato il venerdì libero a tutti, immagino. La ragione è un evento straordinario: quel giorno devo operare il Presidente degli Stati Uniti.»
Gina rimase a bocca aperta: Duncan glielo stava dicendo!
Lui le sorrise. «A quel che vedo, questa è l'ultima cosa che ti aspettavi di sentire. Mi compiaccio. Significa che le nostre misure di sicurezza funzionano.»
Le raccontò gran parte delle cose che Gina aveva saputo da Oliver il giorno prima: il tipo di intervento a cui si sarebbe sottoposto il Presidente, le ragioni che ci stavano dietro e il perché di tutta quella segretezza. Non volendo mettere nei guai Oliver, lei fece finta di non sapere nulla. Mentre lo ascoltava, la sua mente cercava affannosamente di capire perché, se aveva deciso di far del male al Presidente, lo stava dicendo proprio a lei.
«Devi essere molto orgoglioso», gli disse quando lui ebbe finito.
«Ebbene, tu sai quanto io non ami i politici, eppure devo ammettere che è un onore essere stato scelto come suo chirurgo.»
«A parte l'onore», disse Gina cautamente, «sono un po' sorpresa nel vedere che contribuisci a rendere più probabile la sua rielezione. Voglio dire, sapendo quello che pensi di lui...»
Duncan agitò la mano in segno di rifiuto, come se volesse cancellare quelle parole. «Questa è solo una corbelleria dei suoi curatori d'immagine.» Fece un sorrisetto. «Come se le sue borse potessero in qualche modo farlo o non farlo rieleggere.»
«Eppure lo sai che cosa si dice dell'aria stanca di Nixon in quel dibattito televisivo del 1960.»
«L'ho visto, quel dibattito. L'aria stanca era l'ultimo dei problemi di Nixon.»
«Comunque l'aiuterai a sembrare più giovane...»
«Non ci penso neanche. Mi sto preparando a rimuovergli completamente le palpebre, in modo che abbia gli occhi simili a quelli di un orribile insetto.»
Il cuore di Gina sobbalzò. Non stava dicendo sul serio... O sì? «Duncan, non...»
«Su, stavo solo scherzando. Vedi, dal momento che il Presidente in persona vuole che sia io a farlo, lo farò. Normalmente non mi limito a correggere soltanto un difettuccio come quello, ma il resto del suo viso ha un aspetto abbastanza giovanile, quindi farò un'eccezione.»
«Chi ti assiste?» domandò Gina. Oliver glielo aveva già detto che sarebbe stato il dottor VanDuyne, ma pensò che chiedendolo l'avrebbe coperto.
Duncan si sporse in avanti. «È proprio per questo che ti ho fatto venire qui. Vorrei che fossi tu ad assistermi.»
Gina strabuzzò gli occhi. Quelle parole l'avevano lasciata di stucco. Che cosa diavolo stava succedendo?
«Io?» ripeté incredula.
«Sì, tu. VanDuyne, il medico personale del Presidente, si è offerto di farmi da assistente. Molto probabilmente andrebbe bene, ma più ci penso, più vorrei avere accanto qualcuno che lavora abitualmente con me. Noi due insieme abbiamo fatto dozzine di questi lifting alle palpebre. Perciò, se non hai impegni per venerdì...»
«No, no, nessun impegno.»
«Bene. Vorrei che ti occupassi anche dell'assistenza postoperatoria. VanDuyne era disposto a farlo, ma ancora una volta tu hai più esperienza. Mi sentirò più tranquillo se sarai tu a controllare ogni cosa.»
«Sì, certo», rispose Gina, ancora confusa. Si sforzava di non apparire disorientata o intimorita. «Sarò lieta di farlo.»
«Eccellente. Naturalmente, nel conto aggiungerò un cospicuo onorario per l'assistente chirurgo.»
Stava per assistere il Presidente degli Stati Uniti in persona, e sarebbe anche stata pagata profumatamente per farlo! Che cosa si può volere di più?
Ma la cosa che più l'aveva sbalordita era che Duncan le avesse chiesto di assisterlo. Come avrebbe potuto tramare qualche attentato, se voleva che lei fosse costantemente al fianco del Presidente?
Possibile che tutti i suoi sospetti fossero infondati?
No, non tutti. Quella bottiglietta di TPD proiettava ancora la sua ombra sinistra su tutto quanto, ma Gina ora sentiva la tensione sciogliersi, i muscoli del collo e delle spalle rilassarsi, come se avesse smesso di portarci sopra il peso del mondo.
Ascoltò distrattamente le altre cose che Duncan le spiegò: l'anestesista che sarebbe venuto dal Bethesda, le misure di sicurezza e la necessità di assoluta discrezione.
«Non devi assolutamente farne parola con nessuno: né con la tua migliore amica, né con i tuoi genitori, e neppure col tuo fidanzato dell'FBI.»
«Siamo solo amici», precisò. Sebbene a questo punto non fosse più sicura neanche di questo.
«Sia quel che sia, non ha importanza. Solo i Servizi Segreti e i quattro medici che saranno in sala operatoria venerdì mattina lo devono sapere. Abbiamo stabilito l'inizio dell'intervento per le sette e mezzo. Il Presidente e VanDuyne saranno qui alle sei e mezzo, tu, Oliver e l'anestesista dovrete arrivare alle sei. Io verrò alle cinque per aprire agli uomini dei Servizi Segreti, così che possano 'rendere sicuro l'edificio', mi pare che sia questa l'espressione che usano. Hai qualche domanda?»
«Nessuna.»
«Magnifico. Oh, a proposito, Oliver è al settimo cielo per questa storia, e desiderava festeggiare prima dell'intervento. Personalmente, penso che sia una cosa piuttosto stupida, ma se non facciamo qualcosa per celebrare l'occasione, Oliver potrebbe anche esplodere. Siccome dovremo svegliarci tutti presto venerdì, e dato che Oliver adora la cucina italiana, ho prenotato un tavolo al Galileo per questa sera. Oliver e io saremmo molto felici se tu ti unissi a noi.»
Al Galileo! Dio, il ristorante a quattro stelle dove il Presidente porta i suoi amici di Hollywood, quando vengono a trovarlo. Anche lei stava iniziando a sentirsi al settimo cielo.
«E come potrei dire di no al Galileo?»
«Passo a prendere Oliver, poi saremo da te verso le sette e mezzo.» Si alzò. «E adesso, se non c'è altro, suggerisco di tornare tutti e due al lavoro.»
Sentendosi ancora un po' stordita, Gina annuì, si alzò e si diresse verso l'atrio. La vita era certamente piena di sorprese.
Duncan osservò Gina uscire, poi si riempì un'altra tazza di caffè.
Era andata abbastanza bene, pensò. Fin troppo bene.
In altre circostanze l'avrebbe trovato una specie di gioco stimolante, come giocare al gatto col topo, ma non con questo tipo particolare di topo. Inoltre, tutto era a suo favore: lui sapeva quello che lei sapeva, mentre lei non aveva la più pallida idea che lui l'avesse scoperta. Gina stava iniziando di nuovo ad avere fiducia in lui, e lui ne avrebbe approfittato per metterla in ginocchio.
Non era particolarmente orgoglioso di se stesso.
Individuò una scheggia di plastica nera sul tappeto e la raccolse: un pezzo della videocassetta che aveva rotto la sera prima. Dopo quello scatto d'ira aveva raccolto i pezzi, li aveva buttati via e aveva inserito una nuova cassetta nella videocamera. Poi, ricacciate le emozioni in un angolino da dove non potessero interferire, si era messo a tavolino a valutare le carte che aveva a disposizione e a calcolare il modo migliore di giocare la sua mano.
Prima di tutto aveva chiuso di nuovo il TPD nel cassetto della scrivania e si era assicurato che Gina non avesse un'altra occasione di forzarlo, poi era passato all'attacco. Dunque, nonostante tutti i suoi sforzi perché la cosa rimanesse segreta, Gina era venuta a sapere del Presidente. La mossa peggiore, a questo punto, sarebbe stata di tirarsi indietro, perché avrebbe confermato che aveva qualcosa da nascondere. Quindi aveva deciso di fare il contrario, di prenderla di sorpresa. Doveva mostrarle le carte, ma solo quelle che lei aveva già visto.
Ed era esattamente ciò che aveva fatto. Aveva recitato la parte così bene, quella mattina, che quasi si faceva paura da solo.
Risultato: non solo ora Gina non sapeva più che pensare, ma era letteralmente elettrizzata dall'opportunità di assisterlo nell'intervento al Presidente. Ne era onorata, nientedimeno.
Forse l'aveva sopravvalutata.
Scacciò l'irritazione e riesaminò l'ultima parte del suo piano: tenere Oliver fuori da tutta la storia. Di solito suo fratello si prendeva il mercoledì libero, e quel giorno non aveva fatto eccezione. Ma per esserne sicuro, l'aveva chiamato e gli aveva detto di non riferire a Gina, per nessuna ragione, neanche una parola della conversazione che avevano avuto la sera prima.
Almeno fino a quando lui non avesse avuto la possibilità di parlarle. Era di vitale importanza, perché se Gina avesse scoperto che Duncan sapeva che lei era già al corrente di tutto, avrebbe mandato a monte la sua messinscena, e con essa il suo piano.
Adesso doveva solo tenerli separati fino alla cena di quella sera, dopodiché non avrebbe più avuto importanza.
Si stropicciò gli occhi stanchi e arrossati. Se solo ci fosse un'altra via per uscirne... Aveva passeggiato su e giù per quasi tutta la notte per cercare una soluzione, ma non l'aveva trovata.
Sentì crescergli dentro un senso di nausea.
Dio, quanto avrebbe voluto che fosse già tutto finito.
Il telefono di Gina squillò. Era Duncan.
«Sei pronta?»
«Certo che sono pronta», rispose. «Hai detto alle sette e mezzo, no? Non dirmi che non sei ancora partito.»
«In questo momento sto attraversando l'Ellington. Sarò lì tra un minuto.»
Il miracolo del telefono cellulare, pensò Gina mentre metteva giù la cornetta. Capì, dalla chiamata, che Duncan non voleva doverla attendere a lungo: il ponte Duke Ellington era a meno di un minuto di distanza da casa sua, e senza dubbio al suo arrivo si aspettava di trovarla già di sotto all'ingresso. Molto probabilmente Oliver sarebbe stato felice di salire per scortarla fino alla macchina, ma perché scomodarlo?
Si diede un'ultima occhiata allo specchio. Il vestitino nero, quello che Mama le aveva sempre detto di tenere in guardaroba, oggi le faceva proprio comodo. Quando era arrivata dalla Louisiana aveva fatto un piccolo investimento in quel vestitino che le fasciava il corpo, e che ben si accompagnava con un girocollo. Quella sera si era messa un filo di perle e degli orecchini intonati. Semplice, ma elegante. Aveva sempre desiderato partecipare ai ricevimenti del Campidoglio, e quell'abbigliamento era perfetto. Finalmente, quella sera avrebbe avuto l'occasione di farlo uscire dall'armadio. E per sfoggiarlo al Galileo: niente male come debutto.
Minacciava di piovere, così si gettò l'impermeabile sulle spalle e scese di sotto. Un attimo dopo arrivò la Mercedes nera di Duncan.
Lui scese e le aprì la portiera di fianco al guidatore. Mentre saliva in macchina, Gina diede un'occhiata verso il sedile posteriore: vuoto.
«Dov'è Oliver?» chiese.
«Ha un piccolo problema di stomaco. Si scusa e ci manda a dire che, Galileo o no, questa sera non vuole nemmeno sentir parlare di mangiare.»
«Oh, che peccato. Lo chiamerò dopo cena per sapere come si sente.»
«Penso che si sarà già trascinato nel letto, e se ne starà sotto le coperte fino a domani mattina.»
«Ma non c'è nessuno che si prende cura di lui?» Gina non poté fare a meno di cogliere quell'occasione per soddisfare la sua curiosità su Oliver. «Nessuno che gli dia un'occhiata?»
«Oliver è una delle persone più autosufficienti che io conosca. Ha una donna di servizio che va da lui una volta alla settimana, e a parte ciò è solo e ben felice di esserlo: niente moglie, niente figli, niente amante, e niente 'amichetto'.»
«Non ho mai pensato che...»
«Se l'avessi fatto, non saresti stata la prima.»
«Povero Oliver, mi dispiace per lui: non era stata sua l'idea di questa cena?»
«Infatti volevo disdirla, ma lui ha insistito che noi ci andassimo. Così questa sera mi toccherà fare anche la parte di Oliver.»
«Intendi dire che mangerai per due?»
«Sì. E con molto aglio.»
Gina notò che il sorriso di Duncan sembrava un po' forzato. Era teso, contratto, sembrava quasi a disagio. A causa sua? Forse lo imbarazzava farsi vedere in compagnia di una sua giovane dipendente? Ma raramente Duncan dava peso a quello che la gente pensava di lui.
La Mercedes si fece largo nel traffico della Connecticut come una corazzata in un lago. Non era mai stata sulla macchina di Duncan. Osservare lo scorrere dei negozi e degli alberghi al di là del vetro azzurrato la faceva sentire invulnerabile. Girarono intorno al Dupont Circle, poi a destra sulla M Street, a sinistra sulla Ventunesima ed eccoli arrivati.
«Ecco il Galileo», annunciò Duncan mentre entravano nel garage. Una semplice tettoia marrone sporgeva da quello che sembrava un edificio adibito a uffici. «Dove l'élite rammollita s'incontra per abbuffarsi.»
Gina gli rispose con una battuta migliore: «Dove il fallace e mordace mendace può farsi vorace mentre appare loquace, sagace e perspicace».
Ecco fatto. Questa era due o tre volte meglio.
Duncan la fissò per un attimo, poi disse: «Questa, mia cara, era davvero una meraviglia».
Ma non sorrideva. Aveva un'espressione strana, quasi... sofferente.
Il suo manhattan era perfetto, le mezzelune di granchio superbe, il servizio impeccabile, e il vino liscio come la seta. L'addobbo sobrio del Galileo non era quello che lei si aspettava. Niente drappeggi pesanti o mobili in stile mediterraneo; era molto luminoso, essenziale. Ma una cappa scura sembrava avvolgere il loro tavolo. A volte la conversazione andava avanti a fatica. Duncan si stava comportando in un modo assolutamente inconsueto. Nessun discorso enfatico, nessuna filippica; anche quando arrivarono Larry King e il senatore Rockefeller e si sedettero a tre tavoli di distanza, Duncan fu capace solo di fare pochi commenti sprezzanti. A volte restava con gli occhi fissi sul suo viso, altre volte invece il suo sguardo era distante milioni di chilometri. Spilluzzicava quello che aveva nel piatto e a malapena sorseggiava il vino, tuttavia continuava a riempirle il bicchiere. Gina si chiese se si potesse sentire giù per il malessere di Oliver.
Avrebbe voluto avere un appiglio qualsiasi, ma quell'uomo era un puzzle vivente. Ogni volta che pensava di averlo capito, ecco che saltava fuori un nuovo pezzo che rimetteva tutto in gioco e la costringeva a ricominciare da capo.
Lo stava osservando già da parecchi minuti, con lo sguardo perso nel suo bicchiere mezzo pieno.
«Tutto bene?» gli domandò a un tratto.
Lui alzò gli occhi. «Mmm... Sì, sì. Bene.»
«Mi sembri un po' giù.»
Scrollò le spalle. «Stavo solo pensando alla vita, agli intrecci e ai giri tortuosi che ci fa percorrere. E agli scherzi crudeli che ci gioca.»
«A volte sono scherzi divertenti.»
«Certe volte ci mettiamo da soli con le spalle al muro», proseguì Duncan come se non l'avesse sentita, «e poi disprezziamo i mezzi che siamo costretti a usare per toglierci d'impaccio.»
Cosa c'era che non andava quella sera?
«Vuoi il dessert?» le chiese mentre la cameriera stava levando i piatti.
«Non credo di riuscire a mangiare ancora qualcosa», rispose Gina. «Ma gradirei un caffè.»
«Lascia che al caffè ci pensi io. Non importa se questo è uno dei migliori ristoranti della città, il loro caffè non può certo essere paragonato al mio. Ci prenderemo un vero caffè nel mio ufficio.»
Gina fu tentata di rifiutare l'offerta, ma capì che non poteva negare a Duncan il suo rituale del caffè. Forse l'avrebbe tirato su di morale. Oltre tutto, non erano molto distanti dalla clinica.
Dopo che Duncan ebbe pagato il conto, Gina si alzò e si sentì un po' malferma sulle gambe. Colpa del vino, pensò.
Mentre osservava, attraverso la vetrata dell'ufficio di Duncan, i pesci nuotare languidamente nella vasca, Gina si chiese se vi fosse un posto sulla terra dove si sarebbe sentita più a disagio di quanto lo fosse lì, in quell'ufficio. Lì era dove aveva forzato il cassetto, dove solo il giorno prima si era intrufolata a ficcanasare nella libreria. E lì, a pochi metri da lei, Duncan si stava dando da fare per prepararle quello che lui proclamava come il miglior caffè del mondo.
Si sentiva quasi un verme.
Ma almeno la prospettiva di un buon caffè sembrava averlo confortato. Probabilmente era quello il problema che l'aveva tormentato per tutta la serata: astinenza da caffeina.
«Finalmente», disse Duncan, con una tazza fumante in mano. «Il perfetto caffè da dopocena.»
Gina lo prese e annusò. «Liquirizia?» azzardò.
«Lo so, lo so, non avrei dovuto. Devi promettermi di non dire a nessuno che ho alterato un mio caffè. Ma dopo una cena di cucina italiana, mi sono lasciato andare e ho aggiunto un po' di sambuca.»
Gina l'assaggiò, e trattenne una smorfia. Era amaro. Riusciva a sentire il gusto del caffè e il sapore della sambuca, ma c'era anche qualcos'altro, qualcosa che non riusciva a identificare.
«Ha un gusto strano», disse.
«Una speciale sambuca nera; gli dà un sapore unico. Bevi.»
Gina mandò giù un'altra sorsata. Di sicuro non era di suo gusto, ma non poteva certo rifiutarlo, dopo che lui si era dato tanto da fare per prepararglielo. E allora, piuttosto che prolungare l'agonia, lo bevve d'un fiato.
«Un'altra tazza?» le chiese Duncan.
«No, grazie. Tra il manhattan, il vino e la sambuca, penso di aver superato il mio limite.»
«Forse è meglio che ti accompagni a casa.»
«Sì, forse è meglio. Scusami.»
«Non c'è niente di cui scusarsi. Non devi guidare, perciò che differenza vuoi che faccia?»
Iniziava a cadere una pioggia leggera. Nella Mercedes, il turbinio delle luci della strada e dei fari delle auto che si rifrangevano attraverso le miriadi di gocce d'acqua sui vetri, iniziarono a farle sentire un rimescolamento allo stomaco. Socchiuse gli occhi e fece un respiro profondo. Avrebbe preferito morire, piuttosto che vomitare nella macchina di Duncan.
Lui parcheggiò in seconda fila in Kalorama Street, le prese le chiavi di casa e l'accompagnò fino al suo appartamento. La lasciò davanti alla porta, poi si diresse verso le scale.
«Va tutto bene?» le chiese prima di andarsene.
«Sì, mi sento meglio ora. Grazie per la cena. E scusami...»
«Non ci pensare. Non avrei dovuto darti quel caffè.»
Mentre lo diceva c'era qualcosa di strano nella sua voce, ma l'espressione sul suo viso era indecifrabile. O era solo perché lei aveva la vista offuscata?
«Buona notte, Duncan.»
«Buona notte. Vai subito a letto.»
«Non ti preoccupare, lo farò.»
Non appena chiusa la porta, Gina si diresse verso il bagno, ma non riuscì a vomitare. Aveva ancora la nausea, ma ora il mondo che le girava intorno sembrava aver rallentato.
Pensò di farsi una doccia, ma poi decise che quello di cui aveva bisogno era una buona dormita.
Si levò l'impermeabile e lo lanciò sulla sedia. Si sedette sul letto e si sfilò i collant, poi iniziò ad armeggiare con i bottoni del vestito. Prima che raggiungesse l'ultimo si sdraiò e chiuse gli occhi. Solo per un secondo... Non più di un minuto, poi finirò di svestirmi...
33.
GIOVEDÌ MATTINA
Gina si svegliò con la bocca impastata, la sabbia negli occhi, e un complesso heavy metal che le martellava nelle orecchie. Scese dal letto e cercò a tastoni il pulsante per zittire la radio-sveglia. La lasciava sempre sintonizzata su una stazione che trasmetteva soltanto musica metal. Era un metodo infallibile per riuscire ad alzarsi: nessuno sarebbe rimasto a letto a sentire quella roba.
Ora però avrebbe voluto averla sintonizzata su di un'altra stazione, una qualsiasi, prima di uscire la sera prima. Quella mattina qualunque rumore significava dolore per lei, ma l'heavy metal trasformava il dolore in tortura.
Le vibrazioni dei bassi e della batteria le penetravano nel cervello. Uno di quei gruppi avrebbe dovuto chiamarsi Torquemada.
Colpì con un pugno l'interruttore che metteva la sveglia in snooze, poi si girò e si diresse di nuovo verso il letto. Si diede un'occhiata nello specchio e si accorse che era ancora vestita. Maledizione! Il suo vestitine nero era ridotto a uno straccio. E molto probabilmente anche lei era nello stesso stato.
Cadde a faccia in avanti sul materasso, come un albero abbattuto.
Perché si sentiva così a pezzi?
La sera prima non aveva bevuto poi così tanto da ridursi in quello stato; è vero, aveva mescolato un po' gli alcolici, ma non le aveva mai provocato un effetto del genere.
Qualunque cosa fosse, non le piaceva. Aveva lo stomaco in subbuglio, e la testa... Dio, la testa!
Stava quasi per riaddormentarsi, quando il suono di una chitarra ululante riempì un'altra volta la stanza. Questa volta si alzò e spense la radio.
Si levò il vestito mentre si dirigeva barcollando verso il bagno. Si guardò nello specchio sopra il lavabo: spaventoso, semplicemente spaventoso.
Aprì il rubinetto della doccia e finì di spogliarsi. Non appena l'acqua fu calda, vi entrò e lasciò che l'acqua le scorresse sulla testa e sul corpo.
Dio, che meraviglia.
Iniziò a insaponarsi, prima il viso e poi giù il resto del corpo. L'azione dell'acqua e dello strofinamento cominciarono a riportarla in vita. Stava riemergendo dagli inferi, rientrava nel mondo dei...
«Ahi!»
Si girò e guardò in basso, verso il lato esterno della coscia destra: aveva avvertito una fitta mentre si strofinava in quella zona. Vi passò una mano sopra e notò un minuscolo livido bluastro. Probabilmente aveva sbattuto senza accorgersene contro lo spigolo di un tavolo al ristorante, oppure mentre andava a letto, pensò.
Però, un attimo... Quel livido era situato più sulla parte posteriore che su quella anteriore della coscia.
C'era un solo modo per procurarsi un livido simile, ed era di camminare all'indietro.
Uscì dalla doccia e appoggiò il piede sul bordo della vasca per osservare più da vicino. Era più di un livido: la pelle era graffiata, e c'era un taglio semicircolare al centro dell'ematoma. Quasi come quello che aveva visto... sul senatore Marsden!
Sentì mancarle le ginocchia, e dovette aggrapparsi al portasciugamani per restare in piedi.
No, aspetta, ferma, si disse mentre la stanza da bagno le vorticava intorno e lottava per rimanere in piedi. È pazzesco, è impossibile.
Ma quando guardò di nuovo, la minuscola lacerazione c'era ancora. La esaminò con cura: poteva sentire la sottile cresta del taglio. Era fresca. La premette, e al centro del taglio apparve una minuscola goccia di sangue.
Controllò con cura in profondità intorno al livido, palpando il grasso sottocutaneo, cercando...
D'un tratto si bloccò. Era la sua immaginazione, o c'era qualcosa? Qualcosa di morbido come il grasso, ma troppo levigato per essere del grasso. Qualcosa di oblungo, cilindrico, simile a un innesto.
Il bagno girò di nuovo intorno a lei. Adesso aveva voglia di vomitare. Si chinò sulla tazza in preda ai conati, ma lo sforzo fu inutile.
Il cuore le batteva sempre più all'impazzata, e cadde in ginocchio.
Quando la stanza smise di girare, controllò ancora più da vicino la coscia. Palpò di nuovo la ferita, questa volta con maggior circospezione. Se c'era veramente qualcosa lì sotto, e se quel qualcosa era un innesto, l'ultima cosa che voleva era stuzzicarlo, né tantomeno romperlo.
Ma come poteva essere un innesto? Duncan era rimasto fuori della porta, e lei l'aveva chiusa a chiave...
Un momento. Duncan aveva preso le sue chiavi, le aveva aperto la porta e l'aveva fatta entrare, poi se ne era andato. Ma le aveva riconsegnato le chiavi? No. L'aveva visto lasciarle da qualche parte? No. In realtà non aveva visto un granché. La porta si chiude automaticamente, e lei non si era preoccupata di mettere il catenaccio. Tutto quello che desiderava era di toccare il cuscino.
Si alzò in piedi, si avvolse in un asciugamano e chiuse l'acqua. Tremava.
Si ricordò del caffè nell'ufficio di Duncan: aveva pensato che il sapore amaro fosse dovuto a quella strana sambuca nera, ma poteva anche essere qualcos'altro. Poteva essere stato idrato di cloralio.
Duncan aveva usato il vecchio trucco della droga nel caffè, poi aveva preso le sue chiavi, era tornato indietro dopo aver fatto qualche giro dell'isolato, era entrato, e con una piccola operazione le aveva inserito uno dei suoi innesti nella coscia mentre lei era priva di sensi.
Ancora gocciolante, uscì dal bagno con passo malfermo e si diresse verso la porta di casa. La catena non era stata messa, ma non si ricordava se l'aveva fatto o no. E le chiavi...
Diede un'occhiata in giro e le vide sul tavolino.
Ma certo, Duncan le aveva lasciate lì dopo aver finito il suo lavoretto. A che cosa gli sarebbero servite, ormai?
Ma perché? Perché avrebbe dovuto fare una cosa simile, dopo che solo qualche ora prima le aveva chiesto di assistere all'operazione del Presidente? Non aveva nessun senso. A meno che...
A meno che pensasse che lei sapeva troppo. Che cosa avrebbe fatto se avesse saputo dell'incidente organizzato e della risonanza magnetica fatta alla gamba del senatore Marsden? E se Oliver gli avesse detto che lei aveva indovinato tutto sul Presidente? Avrebbe dovuto essere assolutamente sicuro di averla fuori dai piedi. E prima di venerdì.
Squillò il telefono. Con la mano tremante sollevò il ricevitore. Quando riconobbe la voce di Duncan, quasi si mise a urlare.
«Come stai?» le chiese lui.
Tenendo sotto controllo la paura e il dolore, Gina si sforzò di rispondere con calma. «Benissimo, a parte un po' di mal di testa.»
«Mi fa piacere sentirtelo dire. Ieri sera eri completamente partita. Per un attimo ho...»
«Duncan!» Non riuscì più a trattenersi. «Duncan, come hai potuto farmelo?»
«Fare che cosa?»
«Dannazione, lo sai benissimo! Ieri sera mi hai ficcato un innesto nella gamba!»
«Che cosa? Resta un attimo in linea, per favore.»
Vuole mettermi in attesa! pensò Gina. Non ci posso credere!
Stava per sbattere giù il ricevitore quando sentì un click, e l'appoggiò nuovamente all'orecchio.
«Che cosa hai detto, Gina?» domandò. «Non ho capito. Cosa pensi che abbia fatto?»
«Non fare la commedia con me, Duncan. So tutto. Mi hai messo qualcosa nel caffè, ieri sera, e poi mi hai ficcato un innesto pieno di TPD nella gamba.»
«Stai dicendo che mi sono introdotto nel tuo appartamento e ti ho operato? E che cos'è questo TPD?»
«Lo sai benissimo cos'è. Provoca una sindrome psicotica.»
«Gina, ascolta. Prova a pensare: se avessi voluto somministrarti qualcosa, perché prendermi la briga di farlo con un innesto? Perché non iniettartelo e basta?»
Questo la fece riflettere.
Già, perché non glielo aveva semplicemente iniettato? Ma poi improvvisamente capì.
«Perché ieri sera eri con me, ecco perché. Ci hanno visti insieme. Vuoi che passi un adeguato lasso di tempo dal momento in cui eri con me a quello nel quale si scatenerà la crisi.»
«Temo che tu ne stia già avendo una, Gina.»
«Questo è quello che vorresti che la gente pensasse, non è vero? Bene, ora stammi a sentire, Duncan...»
«Hai sentito abbastanza, Barbara?» la interruppe lui.
E Gina sentì la voce di Barbara, piena di compassione: «Devi calmarti, Gina. Noi ti siamo amici, vogliamo solo aiutarti. Per piacere, devi crederci.»
Per poco a Gina non cadde il telefono di mano. «Oh mio Dio, Barbara! Ti ha messo in linea!»
Che bastardo! Ha collegato Barbara mentre mi teneva in attesa. Così adesso aveva una testimone che poteva confermare che lei gli aveva lanciato delle accuse folli, prima del collasso finale.
«Resta dove sei, Gina», le stava dicendo Duncan. «Chiamo un'ambulanza, ti porteremo dove potrai ricevere le cure di cui hai bisogno.»
«NO!» urlò con tutto il fiato che aveva in gola.
Sbatté giù il telefono e corse nel bagno.
Che io sia dannata! Come ho potuto essere così stupida?
Doveva andarsene di lì.
Ora le era tutto chiaro.
Duncan aveva organizzato tutto, e anche molto bene. Per prima cosa la messinscena con Marsden: in qualche modo lei doveva avergli fatto capire che sospettava qualcosa, così Duncan le aveva rivoltato la situazione contro pungendo la gamba del senatore con il trequarti vuoto.
Le aveva fatto fare la figura della stupida. Ma questo era il meno. Adesso avrebbe messo in dubbio il suo raziocinio, la sua capacità di giudicare.
Ma come diavolo aveva fatto a capire che lei sapeva?
A meno che non avesse una telecamera nell'ufficio, o qualcosa di simile...
Mio Dio! Era possibile? Se era così, poteva averla vista scassinare la serratura del cassetto della scrivania e sbirciare dietro i libri due giorni prima. Non c'era da meravigliarsi che non la volesse tra i piedi!
S'infilò una felpa, i jeans e le scarpe da tennis, afferrò la borsa e s'incamminò verso la porta. Ma sulla soglia fu attanagliata da un dubbio.
Dove posso andare?
A casa dei suoi? No, sarebbe stato il primo posto dove l'avrebbero cercata. E poi non voleva coinvolgere i suoi genitori.
E Gerry? Aveva avuto molti dubbi sulla sua credibilità. Ma adesso lei aveva la prova, e proprio lì, nella sua gamba: un innesto nascosto nello strato di grasso.
Tornò indietro e compose il numero di casa di Gerry. Doveva esserci ancora, almeno così sperava. Mentre aspettava che rispondesse, Gina cercò di mantenere la voce sotto controllo. Voleva sembrare nel pieno possesso delle sue facoltà, mentre gli spiegava qualcosa di pazzesco. Come raccontargli tutto in poche parole, ed essere credibile? Era assolutamente necessario che Gerry le credesse.
«Gerry, sono Gina.»
Gerry sentì una piccola vampata di piacere nell'udire la sua voce; e anche un pizzico di senso di colpa, e al tempo stesso di sollievo. Avrebbe voluto parlarle, ma non aveva mai trovato il coraggio di chiamarla. La settimana precedente era stato piuttosto duro, e ora era felice che fosse stata lei a fare la prima mossa. Ma d'altronde era preoccupato per quello che lei gli avrebbe potuto dire, soprattutto dopo averla sentita con quello strano tono di voce.
«Ciao, Gina. Volevo chiamarti, ma...»
«Non ho molto tempo, quindi per favore ascolta quello che devo dirti. Stanotte Duncan mi ha messo uno di quegli innesti nella gamba, mentre dormivo. Ce l'ho ancora dentro.»
Gerry sbuffò.
No, di nuovo!
«Oh, Gina. Sei veramente arrivata a convincerti che...»
Lo interruppe. «Ascoltami, Gerry, ti prego. Non me lo sto immaginando. Ci sono due prove inconfutabili. La prima è l'innesto nella mia gamba. So che c'è, riesco a sentirlo. Posso anche farmi fare un esame che lo confermi, se vuoi, ma quello di cui ho veramente bisogno è che qualcuno mi operi e lo rimuova. La seconda è la ragione che ha spinto Duncan a farmi questo: domani mattina deve fare un intervento di chirurgia estetica al Presidente.»
Gerry chiuse gli occhi. Povera Gina! Prima il senatore Marsden, e adesso addirittura il Presidente.
«Lo so cosa stai pensando, Gerry, e non ti posso biasimare. Ma ti chiedo di fare almeno un controllo. Conoscerai sicuramente qualcuno ai Servizi Segreti.»
«Sì, conosco un paio di ragazzi.»
Gli venne subito in mente Bob Decker. Era assegnato alla Casa Bianca: se c'era qualcuno in grado di sapere ora per ora dove si trovava il Presidente, quello era Bob.
«Va bene, allora chiamane uno, o chiamali tutti. Ti confermeranno quello che ti ho detto sull'operazione. E una volta stabilito questo, forse sarai disposto a credere che non sono completamente pazza.»
«Non penso che tu sia pazza», le disse, sperando di essere convincente.
«Sei un pessimo bugiardo. Ma per favore, aiutami. Controlla. Poi potremo togliere questa cosa dalla mia gamba e fermare Duncan prima che combini qualcosa di catastrofico. Per favore, ti supplico.»
Il tono disperato della voce di Gina spazzò via tutte le sue obiezioni razionali, coinvolgendolo ancora una volta. Era spaventata, molto spaventata.
«Okay», sospirò. «Chiamerò la Casa Bianca.» Era il minimo che potesse fare, e poi, in fondo, non avrebbe avuto nessuna conseguenza. «Ma mi ci vorrà un po' di tempo per avere una risposta. Quella non è gente che se ne sta seduta ad aspettare le telefonate. Se il Presidente è fuori da qualche parte, loro lo seguono.»
«È ancora presto, forse riesci a trovare qualcuno.»
«Ci proverò.»
«Grazie. È molto più di quello che speravo.»
Sembrava non solo spaventata, ma anche smarrita. Come se fosse sola al mondo.
«Dove ti trovo, a casa?»
«Oh, no. Lui sta venendo da me. Devo andarmene. Ti richiamo tra un po', quando sarò in un posto sicuro.»
Oh, Gina.
«Vuoi venire da me? Martha sarà all'asilo, potrai restare qui fino a quando non avrò sentito i ragazzi dei Servizi Segreti.»
La voleva al sicuro. Ma che cosa doveva fare con lei? Senza dubbio aveva bisogno d'aiuto.
Forse avrebbe dovuto mettersi in contatto con i suoi genitori e metterli al corrente del brutto esaurimento in cui era precipitata la loro figlia.
«Magari più tardi. Dopo che avremo levato questa roba dalla mia gamba avrò bisogno di un posto dove riposare. Ma adesso è meglio che stia in movimento.»
Gerry preferì non insistere. Era meglio non far pressione su di lei, finché si trovava in quello stato mentale.
«D'accordo, fai quello che ti senti di fare. Ma tieniti in contatto con me, mi raccomando.»
«Puoi contarci.» Fece una pausa, poi: «Li chiamerai, vero? Non l'hai detto solo per farmi contenta...»
«Li chiamerò, promesso.»
«Grazie, Gerry. Grazie per avermi concesso almeno il beneficio del dubbio. Dopo quello che è successo venerdì scorso, non deve essere stato facile per te.»
«È tutto okay, Gina.»
Dopo aver interrotto la comunicazione, Gerry rimase per qualche istante seduto a fissare il telefono, mentre il suo cervello lavorava. Non aveva nessuna voglia di fare la figura dello stupido chiamando Bob Decker e chiedendogli se l'indomani il Presidente aveva in programma un intervento di chirurgia plastica.
Già doveva farsi perdonare il disastro di Marsden. C'era ancora qualche collega che ogni tanto gli chiedeva se voleva comprare il ponte di Brooklyn...
Controllò sulla sua agenda l'interno di Decker alla Casa Bianca e fece il numero. Anni prima lui e Decker erano diventati amici, durante un'indagine su un caso di estorsione e di contraffazione di banconote in cui FBI e Servizi Segreti avevano collaborato. Di tanto in tanto andavano a bere qualcosa insieme.
Non immaginava che si sarebbe sentito così sollevato, quando gli dissero che Decker non c'era. Lasciò il numero dell'ufficio per farsi richiamare.
La telefonata di Decker arrivò poco dopo che si fu seduto alla scrivania. Dopo i soliti preamboli, Gerry fece un respiro profondo ed entrò in argomento.
«Ascolta, Bob, la ragione per cui ti ho chiamato è che ho sentito dire che il Presidente domani deve farsi un lifting o qualcosa del genere. C'è qualcosa di vero?»
Decker si schiarì la voce. «Un lifting? Domani? Questa è buona! Dove hai sentito una cosa simile?»
«Dal solito giro. Qualcuno ha sentito qualcun altro che è il secondo cugino della madre che l'ha sentito per caso in una lavanderia a gettone, e così via. Ho pensato che fosse meglio parlartene. Se è vero, penso che tu voglia sapere che la voce sta girando.»
«Grazie, Gerry. L'apprezzo.»
«Allora?»
«Allora cosa?»
«È vero?»
«Il Presidente, domani mattina, se ne andrà a Camp David per un lungo fine settimana, e io andrò con lui.» Ridacchiò. «Cristo, s'incazzerà quando lo verrà a sapere. So che non gli piace che si pensi che deve farsi un lifting. Ma da dove partiranno queste pazzie?»
«Da qualche pazzo, suppongo», rispose Gerry malinconicamente.
«Okay, grazie per aver pensato a me. Puoi scordarti questa sciocchezza, ma avvertimi se vieni a sapere qualcos'altro.»
«Lo farò.»
Splendido, pensò Gerry mentre riagganciava il telefono. Il Presidente non sarà nemmeno in città, domani.
Almeno stando a quanto aveva detto Bob Decker. Ma Decker potrebbe anche coprire il Presidente: se gli hanno ordinato di non dirlo a nessuno deve obbedire, anche se a chiederglielo è l'FBI.
A chi credere?
Una settimana prima non avrebbe avuto alcun dubbio, ma dopo il pasticcio di Marsden...
Gerry sferrò un pugno sulla scrivania che fece traboccare il caffè dalla tazza. Maledizione, cosa avrebbe detto a Gina?
E adesso dov'era lei? In giro per la città con la macchina? O seduta a un tavolo in fondo a qualche caffetteria?
Doveva aiutarla, e in fretta.
Gina stava sorseggiando un cappuccino a un tavolo presso la vetrina, in una posizione da cui le era facile tener d'occhio la strada. Aveva trovato una caffetteria sulla Columbia Road che le permetteva di avere una visuale sull'angolo est della Kalorama, a mezzo isolato dal suo appartamento. Se Duncan o un'ambulanza fossero stati diretti a casa sua, avrebbero svoltato a quell'angolo.
Fino a ora, però, nessuna ambulanza e nessuna Mercedes nera in vista. Ma Duncan era scaltro: chi poteva dire che sarebbe venuto con la Mercedes?
Piuttosto che vagare per la città senza una meta, aveva preferito lasciare la macchina davanti a casa e venire sin lì a piedi, poi si era seduta a osservare. Duncan aveva veramente chiamato l'ambulanza, o sarebbe venuto di persona? Dio, come avrebbe voluto saperlo. L'unica cosa che sapeva con certezza era che per il momento doveva stare il più lontano possibile da lui.
Guardò l'orologio: era il momento di fare una telefonata a Gerry. Un altro vantaggio di quella piccola caffetteria era la posizione del telefono, proprio vicino all'ingresso. Poteva fare la telefonata e allo stesso tempo non perdere di vista l'angolo della strada.
Gerry sembrava stanco quando rispose al telefono.
«Hai chiamato i Servizi Segreti?» gli chiese immediatamente.
«Sì.»
«E allora?»
Lui sospirò, come se facesse una fatica immensa a rispondere. «Mi hanno detto che non sarà operato, né domani, né un altro giorno, né probabilmente mai. È previsto che parta domani mattina stessa per Camp David per trascorrervi un lungo fine settimana.»
«Per riprendersi dall'operazione!» esclamò Gina.
«Non c'è nessuna operazione, Gina.»
«Ma come...?» Oh Dio, come aveva fatto a non pensarci? «Ma certo Gerry, è ovvio che lo negano. È una faccenda segretissima. Lui non vuole che nessuno venga a sapere quello che gli faranno.»
«Ho pensato anche a questo. Gina, ascoltami, non puoi continuare così. Sei un medico, hai il dovere di affrontare razionalmente le situazioni. Non vedi una costante in tutto questo? Non ci sarà nessun intervento al Presidente, proprio come non c'era nessun innesto nella gamba del senatore Marsden.»
«Ma ce n'è uno nella mia! Posso mostrartelo!»
«Gina, tu hai bisogno di aiuto.» Gina capì dalla sua voce che era veramente in pena per lei. «Lascia che ti metta in contatto con qualcuno che usiamo qui al Bureau. Forse può...»
Dagli occhi di Gina sgorgarono lacrime di frustrazione. «Non sono pazza, Gerry. Duncan ha fatto un lavoro magnifico nel manipolare gli eventi per far sembrare che lo sia, ma non è così. E ho un innesto nella gamba che lo prova!»
«Gina...»
«E va bene!» Adesso era arrabbiata. «Se non mi credi, te lo mostrerò. Ora verrò da te e ti proverò che c'è un innesto nella mia gamba. Lascia detto all'ingresso che sto arrivando.»
«Non credo che sia una buona idea, Gina.»
«Forse non lo è, ma sembra l'unica alternativa che mi è rimasta. Preparati, Gerry. Sto arrivando.»
«Gina...»
Aveva riagganciato il telefono ed era rimasta lì in piedi, vicino alla porta, tremante di rabbia e di paura. E se non fosse riuscita a convincere nessuno?
In quel momento si rese conto di come doveva essergli sembrata, al telefono. Doveva sforzarsi di restare calma e di sembrare razionale.
Non sarebbe riuscita a convincere nessuno, se si comportava in maniera strana.
Ma sono terrorizzata, maledizione.
La cosa peggiore era il dubbio che si stava insinuando nella sua coscienza.
Se tutti pensano che sia pazza, forse non dovrei scartare del tutto la possibilità di esserlo davvero.
Era angosciata, in quel momento. Si avvicinò alla porta e appoggiò la tempia contro il vetro freddo. La caffeina e un paio di aspirine l'avevano aiutata, ma la testa continuava a pulsarle. E i dubbi servivano solo a farle aumentare il dolore.
Sono sana di mente?
Possibile che fosse tutta una macchinazione della sua mente, provocata da sostanze neurochimiche mal sintetizzate dal suo cervello o prodotte in proporzioni sbagliate? Quanti paranoici aveva visto nella sua carriera? Erano persone assolutamente convinte della incontrovertibile veridicità delle loro assurde affermazioni. L'avevano sentito con le loro orecchie, dicevano, e visto con i loro occhi. Se non puoi credere ai tuoi sensi e alla tua capacità di interpretare i loro messaggi, a chi o a che cosa puoi credere?
Gina si massaggiò delicatamente la coscia. Forse era davvero semplicemente un livido, e forse il mal di testa di quella mattina era solo colpa del vino e della sambuca. E forse Duncan non le aveva mai chiesto di assisterlo l'indomani per l'operazione al Presidente.
Dio, qual era la realtà?
Batté il palmo della mano contro il telefono a gettoni. No! Non era pazza!
Questo è quello che dicono loro...
Qualcosa di nero e lucido attirò il suo sguardo: la Mercedes di Duncan, o una uguale alla sua, stava passando lungo la via. Svoltò sulla Kalorama.
Improvvisamente i dubbi se ne tornarono da dove erano venuti, e Gina dimenticò la stanchezza e il mal di testa. Lasciò un paio di dollari sul tavolo e si avviò alla porta. Adesso l'auto era fuori dalla sua vista.
Uscì. L'aria fredda e umida le diede una sferzata che la rianimò. Una goccia d'acqua le colpì la fronte. Alzò gli occhi: le basse, grigie nuvole piene di umidità sembravano affondare sotto il loro stesso peso.
Sperò che la pioggia ritardasse ancora di qualche minuto. Attraversò di corsa la Columbia e raggiunse con passo veloce la Kalorama. Si fermò sotto la pensilina dell'ingresso di un palazzo all'angolo e sporse la testa per guardare la strada. Di lì poteva vedere casa sua.
Duncan si apprestava a salire gli scalini davanti al portone. Era molto elegante, con il suo blazer blu e i pantaloni grigio scuro.
A meno che qualcuno non lo avesse fatto entrare, e a quell'ora era difficile, dato che erano tutti al lavoro, avrebbe passato qualche minuto nell'androne ad aspettare che lei rispondesse al citofono. Non appena se ne fosse andato, sarebbe salita in macchina e si sarebbe diretta all'FBI.
Aspettò. Che cosa stava facendo? Come mai non era ancora uscito?
Alzò lo sguardo al terzo piano, e restò senza fiato nel vedere un uomo in piedi nel suo bovindo.
Duncan aveva la chiave! Evidentemente ne aveva fatto una copia la sera prima. Ma certo! Aveva stabilito con Barbara che Gina si comportava in modo irrazionale e quindi si era precipitato a casa sua, presumibilmente per cercare di aiutarla. Avrebbe attivato l'innesto con gli ultrasuoni, e poi avrebbe dichiarato di aver trovato la povera ragazza seduta a balbettare parole incoerenti.
Bene Duncan, indovina un po', pensò Gina stringendo i denti. Gina non c'è. E non ti lascerà certo avvicinare a distanza di tiro.
In quel momento iniziò a piovere, solo una pioggerellina leggera, ma fredda. Fantastico. Cos'altro poteva andare storto? Indossava solo dei jeans e una vecchia felpa della tuta di Tulane, e non aveva il cappello.
Quanto sarebbe stata convincente di fronte a Gerry, con l'aria del pulcino bagnato?
Duncan guardò giù in strada dall'appartamento vuoto, con la mano destra stretta intorno al trasduttore ultrasonico che aveva in tasca.
Cosa sto facendo qui? si chiese.
Odiava essere lì. Provava ancora lo stesso rimorso della sera prima, quando aveva iniettato l'innesto di TPD nella gamba di Gina. Ma commettere quell'azione era stato come bruciarsi un ponte alle spalle: una volta fatto, non poteva più tornare indietro. Doveva andare avanti e dissolvere l'innesto.
Ormai era entrato in una spirale fuori dal suo controllo. Non aveva mai immaginato che le cose avrebbero preso quella piega, ma non poteva più fermarsi. Doveva andare avanti fino ad arrivare al Presidente. Dopodiché, nulla avrebbe più avuto importanza.
La situazione però stava degenerando. Secondo i suoi piani, tutto si sarebbe dovuto svolgere quella mattina in clinica: sia lui che Gina avrebbero svolto il solito lavoro, poi, verso l'ora di pranzo, l'avrebbe colpita con gli ultrasuoni prima di andarsene. Si sarebbe trovato a chilometri di distanza quando Gina avrebbe iniziato a mostrare i primi sintomi. Forse qualche allucinazione visiva, o uditiva, oppure tutte e due. Si sarebbe sentita disorientata, incoerente, avrebbe potuto anche iniziare a strapparsi i capelli e a urlare. Oppure poteva semplicemente cadere in uno stato catatonico, rannicchiarsi in posizione fetale e mettersi a parlare a vanvera in un angolo dell'archivio.
Quell'immagine gli dava la nausea. Ingoiò il fiele che gli era salito lentamente dallo stomaco.
Gina, perché non hai voluto restarne fuori?
Le cose si erano messe così male, che si era visto costretto a premere il grilletto anche con lei. Ma in qualche modo Gina aveva scoperto quello che lui le aveva fatto la notte scorsa, quindi adesso doveva darle la caccia.
Quell'innesto era un'arma a doppio taglio. Sapendo della sua esistenza, Gina poteva usarlo contro di lui, se trovava qualcuno disposto a crederle. Doveva trovarla prima che lei riuscisse a toglierlo.
Dove sei adesso, Gina? Non doveva essere molto lontana; la sua macchina era parcheggiata sotto casa.
Forse era là fuori che l'osservava, aspettando la sua prossima mossa.
Annuì lentamente.
Sì, doveva essere proprio così. Voleva lasciargli credere che se ne era andata, per poi ritornare indietro a meditare sulla prossima mossa con calma, nel calduccio della sua casa, mentre lui se ne andava in giro a vuoto.
Va bene, si disse. Farò il giro dell'isolato per vedere se riesco a trovarla.
Dio, quanto odiava doverlo fare. La sola idea lo faceva star male. Avrebbe voluto che fosse già tutto finito.
Poi avrebbe dovuto trovare un modo per continuare a vivere con se stesso.
Gina vide Duncan scendere velocemente le scale davanti al portone ed entrare in macchina.
E adesso dove vai, Duncan? Forse sei un po' preoccupato, ora che il tuo piccione è volato via?
Lo scorse allontanarsi. Aspettò immobile fino a quando non lo vide svoltare dalla Kalorama sulla Diciottesima, e a quel punto fece una corsa fino alla Sunbird. Ci saltò dentro e la mise in moto.
La pioggerellina si trasformò in un acquazzone mentre percorreva la Kalorama, facendo lo stesso percorso di Duncan. Ma non l'avrebbe seguito. Molto probabilmente lui stava ritornando verso Chevy Chase, mentre lei si sarebbe diretta verso il centro.
Diede un'occhiata in su e in giù sulla Diciottesima, molto probabilmente la strada più colorata del distretto: nessuna traccia di Duncan. Girò a destra e si diresse verso la Florida, poi svoltò nuovamente a destra e si fermò al semaforo rosso all'incrocio con la Connecticut Avenue. Anche lì, nessuna traccia di Duncan. Poteva rilassarsi un po'. Per il momento poteva dimenticarsi di Duncan e concentrarsi su come poteva convincere Gerry che lei...
Quando guardò nello specchietto retrovisore fece un salto sul sedile. Attraverso la pioggia e il lunotto posteriore un po' appannato intravide una Mercedes nera ferma due macchine dietro la sua.
Guardò con attenzione il parabrezza della grossa berlina, ma la pioggia e l'azione dei tergicristalli non le permettevano di riconoscere il conducente.
Deglutì. Aveva la bocca secca. Non riusciva a vedere la targa, ma poteva essere Duncan quello là dietro... Sì, poteva benissimo essere lui.
Ma perché la stava seguendo? Non poteva essere solo per vedere dove stava andando. Cosa aveva in mente, voleva buttarla fuori strada? Difficile. Era sicura che l'ultima cosa che Duncan desiderava era di essere messo in relazione con lei. Ma fino a che punto si sarebbe spinto?
Gli ultrasuoni!
Fu come se una mano ghiacciata le stringesse improvvisamente la nuca, quando si ricordò del negozio di elettronica che Duncan aveva visitato. Forse aveva un congegno che poteva trasmettere gli impulsi ultrasonici fin dentro la sua macchina? Per quel che ne sapeva delle proprietà del suono era una cosa impossibile, ma un sacco di eventi collegati a Duncan sembravano impossibili.
Diede un altro sguardo allo specchietto retrovisore. Niente di meglio che avere delle allucinazioni mentre si guida, pensò.
L'Honda che le stava dietro suonò garbatamente il clacson. Gina alzò lo sguardo e vide che il semaforo era verde. Vide anche il segnale di divieto di svolta a sinistra: ecco un modo per scoprire se la Mercedes la stava davvero seguendo...
Schiacciò l'acceleratore e girò a sinistra sulla Connecticut. Vide la faccia sbigottita del conducente di una Volkswagen gialla che arrivava nell'altro senso, mentre lei gli sfrecciava davanti. La Volkswagen si fermò sobbalzando, facendo suonare furiosamente il clacson mentre Gina si allontanava. Sentì la parte posteriore della macchina che iniziava a scivolare sull'asfalto bagnato, ma la trazione delle ruote anteriori richiamò la sbandata e un secondo dopo l'auto si dirigeva velocemente verso il centro della città.
Non vide nessuna Mercedes nello specchietto retrovisore, ma la visuale non era delle migliori, con la pioggia e il lunotto posteriore appannato.
Il traffico alle sue spalle era una massa confusa di sagome grigie. Duncan poteva essere dovunque.
Poco prima del Dupont Circle il traffico cominciò a rallentare. Un ingorgo... Era quel che ci voleva per Duncan, che poteva avvicinarsi e...
Iniziò a zigzagare tra le auto, mentre il volante le scivolava tra le mani sudate. Doveva raggiungere la piazza con la grande rotatoria. Fece alcune manovre spericolate, guadagnandosi un altro po' di strombazzamenti inferociti, ma un attimo dopo stava viaggiando verso la rotonda. Passò con il semaforo giallo, poi rallentò.
Mentre girava controllò di nuovo lo specchietto retrovisore; guardò anche a destra e a sinistra, scrutando attentamente fuori dai finestrini: nessuna Mercedes.
Si appoggiò contro lo schienale e aspirò una grossa boccata d'aria. Dopo tutto, poteva anche non essere Duncan, si disse. Ci sono un mucchio di Mercedes nere in questa città. I diplomatici le adorano.
Dopo aver completato il giro della piazza imboccò di nuovo la Connecticut, questa volta nella giusta direzione. Improvvisamente sentì una fitta al cuore: era a soli pochi isolati dal Galileo. Sembrava un'eternità, ma erano passate poco più di dodici ore da quando era stata lì con Duncan, ignara di quel che lui avesse in mente.
E adesso stava scappando per salvarsi la vita. O perlomeno la propria sanità mentale.
Mise da parte quei pensieri dolorosi e si concentrò su quel che doveva fare in quel momento. Non era lontana salla sede dell'FBI. Doveva calmarsi, raccogliere tutte le sue forze. Non poteva mostrare quanto era sfinita. Doveva essere convincente, doveva...
Nello specchietto retrovisore di sinistra, sbucando dal sottopassaggio di Dupont Circle come un demone oscuro che emerge dagli inferi, si profilava sempre più grande, sempre più vicina, una Mercedes nera. Questa volta Gina riuscì a vedere il contrassegno medico. Duncan!
Aveva evitato la rotatoria passandoci sotto, e adesso le era quasi addosso. Il cuore le batteva all'impazzata quando la Mercedes arrivò a un centimetro dal suo paraurti. Scattò in avanti, lanciandosi in mezzo al traffico e intrufolandosi con la sua utilitaria in varchi dove la Mercedes non poteva sperare di seguirla, specialmente con quell'asfalto bagnato. Accese le luci, e si mise a sfrecciare attraverso gli incroci un secondo prima che scattasse il rosso.
Stava funzionando: lentamente ma in modo costante stava aumentando la distanza tra di loro.
Ma si stava avvicinando alla fine della Connecticut. In lontananza si vedeva il semaforo della K Street. Era verde, il traffico stava scorrendo. Bene, e adesso dove vado? si chiese. Normalmente avrebbe svoltato sulla Diciassettesima oltre la Farragut Square, e poi giù per la Pennsylvania, ma Duncan era a sole due macchine di distanza.
Proprio mentre stava arrivando, il semaforo divenne giallo. E di nuovo, sopra l'incrocio, vide il segnale di divieto di svolta a sinistra. Prima non aveva funzionato, ma forse questa volta...
Ma in quel momento la BMW che le stava davanti iniziò a frenare.
«Oh, no!» gridò. «Vai avanti, imbranato!»
Invece di rallentare, Gina strinse i denti, schiacciò l'acceleratore, sterzò bruscamente a destra, scartò la BMW e si trovò in mezzo all'incrocio. Allora con decisione girò a sinistra per dirigersi a est sulla K.
Mentre sterzava le ruote passarono sopra una pozzanghera, e la macchina iniziò a sbandare di lato sull'asfalto bagnato. Gina urlò e si buttò sul freno, ma l'auto non rallentava. Era completamente fuori controllo. Vide il cordolo e il marciapiede avvicinarsi minacciosamente.
«Oh Dio, no!» esclamò.
Si preparò all'impatto. La Sunbird sbatté violentemente contro il cordolo, la ruota posteriore rimbalzò sul marciapiede e la macchina s'inclinò fin quasi a ribaltarsi, poi ricascò sulle quattro ruote e Gina batté la testa contro il finestrino. Scosse la testa per schiarirsi le idee: il finestrino era a posto e la macchina, grazie a Dio, si era finalmente fermata senza investire nessuno.
Gina avrebbe voluto piangere e aveva voglia di vomitare, ma non aveva il tempo per fare né l'una cosa né l'altra. A parte la botta alla testa, stava bene. La cintura di sicurezza l'aveva trattenuta dall'essere sbalzata fuori dall'auto. Tutt'intorno c'erano clacson strombazzanti e pedoni che la fissavano, l'indicavano o le mostravano il pugno.
Il motore si era spento. Lo riaccese e cercò di rientrare nel traffico, ma le ruote erano bloccate, non riusciva a girare lo sterzo. Uscì e girò intorno alla macchina. Rimase senza fiato quando vide la ruota anteriore: la gomma era uscita dal cerchione, che si era piegato ed era andato a finire sotto la macchina. Non sapeva se si era rotto l'asse o che cosa, ma era chiaro che la sua piccola Sunbird non si sarebbe mossa da lì.
Si trovava in mezzo alla Farragut Square, su uno spiazzo erboso con cespugli e panchine e la statua dell'ammiraglio al centro. Un'ampia area esposta. Si guardò intorno e vide la Mercedes di Duncan accostare dall'altra parte della Diciassettesima. Gridò, si girò e fuggì attraverso la piazza. Correndo, le sue scarpe da tennis scivolavano sull'erba bagnata. Rallentò il passo e si guardò alle spalle: la macchina di Duncan non c'era più. Bene, questo significava che non la stava seguendo a piedi, ma dov'era? Si sarebbe sentita meglio sapendolo, perché non conosceva l'effettivo raggio d'azione del congegno a ultrasuoni che lui aveva con sé.
Di fronte a lei sulla destra, dall'altro lato della Eye Street, scorse l'insegna della metropolitana. Si sentì subito sollevata: la linea arancione l'avrebbe lasciata a un paio di isolati dall'edificio dell'FBI. Aumentò l'andatura e tagliò attraverso il prato verso l'entrata del metrò. Era arrivata a meno di trenta metri di distanza, quando una Mercedes nera accostò e ne uscì Duncan. Si piazzò davanti alle scale della metropolitana, guardandosi intorno. Quando la vide, si diresse verso di lei a passi decisi. Gina piegò improvvisamente a destra e si avviò in tutta fretta verso l'angolo tra la K e la Diciassettesima. Un'occhiata alle spalle le rivelò che Duncan aveva cambiato idea, e non intendeva seguirla a piedi; stava ritornando alla macchina.
Gina si mise a correre e girò sulla K. Doveva levarsi dalla strada, dove sarebbe stata un bersaglio facile. Passò davanti a un grande magazzino e ci si tuffò dentro. Era un buon posto per nascondersi, grande e affollato dalla gente che cercava riparo dalla pioggia.
Si diresse verso la parete laterale e vagò tra gli articoli per la cura delle unghie. Faceva finta di fare delle compere, ma nel contempo aveva lo sguardo fisso sull'entrata. Si spostò verso il fondo, vicino al bancone dei farmaci dove erano sistemati i prodotti per il pronto soccorso. Quando vide Duncan passare davanti alle vetrine - aveva perfino l'ombrello! - si acquattò dietro un espositore di profilattici, e restò lì un bel po' con il naso infilato tra le confezioni multicolori.
Chiunque l'avesse vista, avrebbe pensato che aveva in programma una notte alquanto movimentata.
Quando ritenne di aver aspettato abbastanza, s'incamminò verso l'ingresso del magazzino. A metà strada vide Duncan di nuovo fuori sul marciapiede. Ma questa volta non passò oltre, questa volta spinse la porta ed entrò.
Gina si accovacciò per terra. Nel caso che qualcuno l'osservasse, si slacciò e riallacciò in fretta le scarpe. Si guardò intorno: nessuno le prestava attenzione. Si tirò un po' su e sbirciò in giro. Per poco non le venne un colpo quando vide che Duncan si stava dirigendo dalla sua parte, con la testa che girava a destra e a sinistra come un radar mentre controllava lungo i corridoi e tra gli scaffali.
Doveva escogitare in fretta un piano. Poteva alzarsi e scattare di corsa fino alla porta e poi in strada, ma sarebbe stato il modo migliore per farsi scoprire. In quel momento Duncan non sapeva dove lei si trovasse, anzi, non era nemmeno sicuro che lei fosse lì, ma se si fosse messa a correre l'avrebbe notata immediatamente. E, peggio ancora, scappando a tutta velocità si sarebbe tirata dietro i guardiani del grande magazzino. Se la prendevano e la trattenevano, Duncan non avrebbe dovuto far altro che passarle accanto e rilasciare un impulso a ultrasuoni, e lei sarebbe andata a far compagnia al senatore Vincent nel reparto di neuropsichiatria.
Guardò in alto, e notò sopra di lei uno di quegli specchi convessi contro i taccheggiatori. Ci vide riflesso un uomo elegante, con il blazer blu e l'ombrello chiuso in mano, che si avvicinava lungo il corridoio dall'altra parte del bancone: Duncan, a non più di tre metri di distanza.
A testa bassa, corse accucciata nella direzione opposta e si fermò a un varco tra i banconi; controllò di nuovo nello specchio: Duncan era all'altra estremità del bancone e stava svoltando nel suo corridoio. Si affrettò a raggiungere la corsia che lui aveva appena lasciato, vi si inoltrò per qualche metro e si rannicchiò in attesa, respirando a mala pena mentre fingeva di confrontare i prezzi delle garze e dei cerotti.
Non osava guardare lo specchio, non ancora: se lei era stata in grado di vedere Duncan, altrettanto avrebbe potuto fare lui. Infine si alzò e sbirciò da dietro un espositore di bende elastiche. Ci mise un po' prima di riuscire a vederlo: era vicino all'entrata principale, stava uscendo.
Ma sapeva che non avrebbe lasciato la zona. Sarebbe rimasto da quelle parti, controllando l'entrata della metropolitana e le vie adiacenti. Sapeva che lei era in quella zona, e non se ne sarebbe andato finché non l'avesse trovata. Tentare di passargli accanto era pericoloso, specialmente di giorno. Aveva bisogno di un posto dove nascondersi fino al calare dell'oscurità.
Strinse i pugni, frustrata. Era così dannatamente vulnerabile con quella... quella cosa nella gamba. Doveva liberarsene, e dopo avrebbe anche potuto passargli vicino. Se solo...
Diede un'occhiata ai cerotti e alle bende. E prese una decisione.
Dove diavolo si è cacciata?
Duncan aprì l'ombrello e guardò lungo tutta la K Street, mentre la pioggia aumentava d'intensità. Il tempo era simile al suo umore: pessimo.
Cercò di vedere il lato buono della cosa. Se non altro, l'acquazzone stava facendo scappare i passanti, e questo avrebbe reso ben visibile chiunque si aggirasse ancora per le strade. Gina sarebbe stata facilmente riconoscibile se fosse uscita. Evidentemente si era nascosta in uno dei negozi da quel lato della via. Non aveva certo avuto il tempo di attraversarla, né di raggiungere la fine dell'isolato prima che lui arrivasse. Quindi doveva essere lì, da quel lato della strada. E prima o poi sarebbe uscita.
Ma se il suo amico dell'FBI stava venendo lì per incontrarla? Poteva essere un problema, ma non insormontabile. Tutto quello che doveva fare era di avvicinarsi furtivamente entro il raggio d'azione del trasduttore e premere il bottone. Il TPD avrebbe iniziato a circolare nel suo flusso sanguigno.
Comunque era uno scenario pericoloso. Molto meglio trovarla prima dell'arrivo della cavalleria... Ammesso che stesse arrivando.
Duncan sospirò. Avrebbe cercato in tutti i negozi, a uno a uno. Certi erano molti piccoli, non ci avrebbe messo molto.
Notò in fondo all'isolato un Burger King. Un posto perfetto per nascondersi: Gina poteva sedersi nel retro a bersi una Coca senza che nessuno l'importunasse. Decise di incominciare da lì.
Gina afferrò la busta di plastica piena dei suoi acquisti e controllò la strada e il marciapiede al meglio che poteva, attraverso la vetrata. In quel momento Duncan non si vedeva, ma questo non significava che non fosse là fuori da qualche parte ad aspettarla.
Le tremavano le ginocchia. Continuava ad arrotolare e torcere nervosamente con le mani i manici della busta. Non voleva uscire. Voleva restare lì all'asciutto e al sicuro, dove Duncan l'aveva già cercata e dove probabilmente non sarebbe tornato. Almeno per il momento.
Ma non poteva. Non poteva scavare un buco sottoterra e strisciarci dentro. Aveva deciso di fare qualcosa, e, dannazione, l'avrebbe fatto.
Non sarebbe più rimasta lì a fare da bersaglio.
Al di là della via c'erano una banca, una copisteria e una squallida pensilina con l'insegna The Tremont. Quel piccolo vecchio hotel era una parte della sua soluzione; l'altra parte era dentro la busta di plastica. Era venuto il momento di agire.
Si mise a controllare il viavai di macchine sulla strada, aspettando un attimo di calma. Finalmente il traffico rallentò. Strinse i denti, si appoggiò contro la porta e si slanciò fuori dal grande magazzino in una corsa a perdifiato sotto l'acquazzone, attraversò la strada e si infilò nell'atrio del Tremont.
Dopo essere entrata si voltò verso la porta e ispezionò la K Street: nessuna traccia di un uomo con il blazer blu e l'ombrello che correva per intercettarla. Ma questo non significava che non potesse comparire di lì a poco...
Mentre si avvicinava alla reception diede un'occhiata alla scolorita gloria dell'atrio. Gli ottoni andavano lucidati, gli specchi avevano una patina di sporco e il tappeto dimostrava una certa età, ma c'era ancora dignità tra quegli intarsi di legno e la carta da parati verde scuro. Un'indipendente vecchia signora, che rifiutava di arrendersi all'epoca delle catene di hotel internazionali.
«Vorrei una singola, per favore», disse Gina alla giovane donna di colore vestita di beige al di là del bancone. «Solo per una notte.»
La donna le porse una scheda per la registrazione. «Riempia questo modulo, per favore.»
Gina si fermò a riflettere, quando con la penna raggiunse la linea con scritto «nome». Non voleva dichiarare il suo vero nome, ma come avrebbe pagato? Oltre alla carta di credito, con sé poteva avere trenta dollari, forse quaranta, che non bastavano di certo a pagare una stanza nel cuore di Washington. Con riluttanza, scrisse «Gina Panzella» e consegnò la Visa insieme alla scheda di registrazione.
«Niente bagaglio?» chiese l'impiegata.
«Ho fatto in modo che mi venga recapitato più tardi.»
Fu tentata di inventare una storia per spiegare come mai non l'aveva con lei e da dove sarebbe arrivato, ma decise di lasciar perdere. A quella donna non interessava, e poi troppe spiegazioni non richieste potevano dare l'impressione che avesse qualcosa da nascondere. Non era esperta in materia, però pensava che per le bugie valesse la stessa regola che per i referti medici e le cartelle cliniche: farle il più semplice possibile.
Cinque minuti dopo era in una piccola stanza all'ultimo piano, con un letto matrimoniale e la vista su di un vicolo. Perfetto.
Mise la catenella alla porta, si lasciò cadere sulla sedia dello scrittoio e chiuse gli occhi. Era così bello sentirsi al sicuro. Temporaneamente al sicuro. Almeno lì non correva il rischio di imbattersi in Duncan.
Gina guardò il telefono e fu tentata di chiamare Gerry per dirgli che sarebbe arrivata in ritardo. Forse gli avrebbe detto anche il perché: perché lui insisteva per avere una prova oggettiva. Bene, stava per dargliela, la sua dannata prova oggettiva.
Lasciò perdere la telefonata a Gerry. Avrebbe solo tentato di fermarla.
Richiuse gli occhi. Perché non poteva semplicemente restarsene lì, in letargo per una settimana o un mese? Farsi portare i pasti in camera e guardare la televisione tutto il giorno. Tutto, tranne uscire fuori di nuovo a fuggire da Duncan per poter provare a Gerry che non era pazza.
Si alzò di scatto. No. Doveva farlo. Subito. Doveva combattere la nausea, l'avversione e la paura. Doveva cogliere l'attimo. Se si fosse fermata, o avesse semplicemente esitato, probabilmente non sarebbe stata più in grado di continuare. Inoltre, più aspettava, e più aumentavano le possibilità per Duncan di rintracciarla.
Afferrò il secchiello portaghiaccio e corse di sotto nella hall a riempirlo. Una volta tornata nella stanza rimise la catenella alla porta, tirò le tende e accese il televisore. Schiacciò i tasti del telecomando finché trovò un chiassoso gioco a premi, poi alzò il volume. Non troppo alto, ma abbastanza da coprire qualsiasi rumore accidentale. Infine portò il termostato a 25 gradi.
Accese la luce nel bagno: era luminoso e pulito, con la vasca e le piastrelle bianche e una toeletta di marmo. Si assicurò che lo scarico della vasca fosse aperto, poi aprì l'acqua. Mentre aspettava che la temperatura aumentasse, vuotò sul piano della toeletta il contenuto del sacchetto di plastica del grande magazzino. Mise da una parte un sacchettino più piccolo, aprì il flacone dell'aspirina extra forte e ne mandò giù quattro con un bicchiere d'acqua. Poi prese la boccetta di compresse di Coricidin. Avrebbe preferito una di quelle provette che si usano per le analisi del sangue, ma quel cilindro di vetro sarebbe andato bene lo stesso. Vuotò le pasticche nel water e iniziò a sistemare il resto della spesa.
Collocò sul fondo della toeletta la pomata di bacitracina, i tamponi di garza, le bende, il cerotto per fasciature e l'acqua ossigenata; sul davanti sistemò la boccetta vuota di Coricidin e un piccolo set da viaggio da cucito; sul bordo allineò una confezione di batuffoli di cotone, delle pinzette, la bottiglia di alcol isopropilico, un accendino e una confezione di lamette a un solo lato tagliente.
L'ultimo elemento era una borsa del ghiaccio. La riempì con i cubetti e la sistemò sul bordo della vasca. Si sbottonò i jeans, se li tolse e li appoggiò sul portasciugamani. Sentì la pelle d'oca salirle dalle cosce fino al bordo delle mutandine.
Bagnò un batuffolo d'ovatta con l'alcol e iniziò a strofinarlo sulla coscia, nella zona del livido, con fermezza ma senza premere troppo: non poteva rischiare di rompere quello che c'era sotto la pelle. Versò l'alcol su una parte della borsa del ghiaccio e la premette sul livido. Un altro brivido le percorse il corpo.
Guardò il soffitto: niente stufetta a infrarossi. Peccato, sarebbe stato bello.
Incastrò la borsa del ghiaccio tra la coscia e la toeletta per tenerla ferma, e prese la scatola gialla e nera delle lamette. C'era scritto «SMITH - lama singola, made in USA». E sul lato: «Adatte a ogni tipo di raschietto monolama. Per uso industriale.»
Le venne da ridere. Uso industriale? Non oggi di certo.
Estrasse una di quelle lamette dalla scatola, l'afferrò con le pinzette, poi accese l'accendino sotto la parte tagliente fino a renderla incandescente. La lasciò raffreddare sull'orlo della toeletta di marmo e nel frattempo si sfilò la felpa e la lanciò sui jeans. Adesso sì che le sarebbe servita la stufetta a infrarossi.
Premendo ancora la borsa del ghiaccio sulla coscia, si sedette sul bordo della vasca con i piedi nell'acqua tiepida che scorreva dal rubinetto. Dopo un'altra decina di minuti, la zona della coscia sotto il ghiaccio era intorpidita e pronta. Strofinò ancora la parte con l'alcol, poi se ne versò un po' sulle mani e prese la lametta.
Iniziò a tremare. Non ce la faccio, non posso.
Una parte di lei le diceva che poteva. Le diceva di farlo, e di farlo ora, prima che l'effetto d'intorpidimento dato dal ghiaccio sparisse.
Ma l'altra parte del suo cervello gridò «Aspetta!»: e se fosse stato tutto un altro imbroglio elaborato da Duncan? Aveva già minato la sua credibilità, e aveva fatto fare a Gerry la figura dello stupido. E se avesse ripetuto con lei lo scherzetto del senatore Marsden? L'aveva drogata con il caffè, le aveva rubato le chiavi ed era penetrato nel suo appartamento per poi conficcarle il trequarti vuoto nella gamba mentre era in stato di incoscienza... Lathram poteva contare sul fatto che nessuno si aspettava che tentasse lo stesso tiro due volte. E contava anche sul fatto che lei sarebbe corsa da Gerry e in un modo o nell'altro l'avrebbe convinto a farle fare una risonanza magnetica alla gamba, che ancora una volta avrebbe dato esito negativo. Dopodiché, qualunque cosa lei avesse detto sarebbe stata etichettata come il delirio di una pazza.
Perciò non poteva assolutamente presentarsi da Gerry a mani vuote, o nel suo caso, a gamba vuota. In un modo o nell'altro, doveva sapere.
Se solo avesse avuto una siringa e qualche anestetico!
Lidocaina! Il mio regno per un po' di lidocaina!
Ma non c'era la lidocaina. Solo del ghiaccio.
Prese un asciugamano e se lo mise in bocca, poi con la mano sinistra tese la pelle sul livido mentre con la destra strinse con forza la lametta.
Non troppo profondo, si disse. Non vorrei incidere l'innesto.
Trasse un respiro profondo e trattenne il fiato. Con un rapido movimento, conficcò l'angolo della lametta nella carne a un centimetro dal livido, poi tirò con decisione la lama verso di sé.
Urlò stringendo ancora più forte l'asciugamano tra i denti.
Rabbrividì dal dolore, si avvinghiò con la mano libera alla sbarra di sicurezza e premette il viso contro le ginocchia, mentre gli occhi le si riempivano di lacrime. Da ogni poro della sua pelle sgorgava sudore freddo.
Poi finalmente, dopo una piccola eternità, il dolore incominciò a diminuire; i fasci muscolari si rilassarono un poco. Si raddrizzò, sputò l'asciugamano e ansimò in cerca d'aria. Dopo essersi ripresa, si sporse in avanti e diede un'occhiata: il sangue fluiva da un taglio lungo quasi cinque centimetri sulla sua coscia. Le dense gocce cremisi, che risaltavano in maniera impressionante sulla ceramica bianca, stillavano dentro la vasca e fluivano lentamente verso il mulinello d'acqua dello scarico. Si sentì svenire, e inarcò la schiena. Per un attimo le sembrò di cadere all'indietro; restò aggrappata alla sbarra fino a quando la stanza non smise di girarle intorno.
Gina si concesse allora un sorriso misto a una smorfia di dolore. Pensava di essere abituata alla vista del sangue. Sì, ma al sangue degli altri. Non è la stessa cosa vedere il proprio.
Toccò il margine della ferita, e subito ritrasse la mano. Erano quelle estremità dei nervi tagliati che le facevano male; lì ci sarebbe proprio voluto dell'anestetico. Rimise l'asciugamano tra i denti, lo strinse forte e gemette mentre divaricava i bordi della ferita. Il grasso sottocutaneo era rosso sangue, invece del suo giallo naturale.
Con circospezione, esaminò accuratamente il grasso con il mignolo. Si sentì leggermente nauseata da quel curiosare, frugare tra le proprie cellule di grasso. Faceva male, ma non era il dolore a darle la nausea: non aveva mai toccato con le mani nude il grasso umano. Era come giocherellare con della tapioca viscida.
Il dolore si fece più intenso mentre premeva a fondo, cercando un'apertura, una depressione, un canale, qualunque indizio che le svelasse quale percorso aveva seguito il trequarti. A un certo punto la punta del dito le scivolò su un piccolo avvallamento nel grasso. S'irrigidì. Poteva essere quello che cercava? Controllò meglio, con delicatezza: aveva la sensazione che il grasso, da quel punto in avanti, cedesse più facilmente. Sì, qualcosa era già passato di lì; e recentemente, anche.
Poi la punta del dito cozzò contro qualcosa di morbido ma più compatto e liscio del grasso.
Gina non sapeva se sentirsi sollevata o terrorizzata. Se non altro, non era tutto frutto della sua immaginazione malata! C'era un innesto nella sua gamba, e solo una persona poteva avercelo messo.
Doveva estrarlo, adesso, e doveva estrarlo senza romperlo. Se lo avesse rotto, o anche semplicemente provocato una piccola perdita, avrebbe fatto il lavoro per Duncan.
Mordendo più forte l'asciugamano, Gina infilò il dito ancora più in profondità tra il grasso. Sospinta dal dolore, l'aria sibilava dentro e fuori dalle sue narici mentre si adoperava per aggirare l'innesto. Doveva raggiungere la parte posteriore. Piano... Piano...
Gerry sbatté giù il telefono nel bel mezzo dell'istruzione di lasciare un messaggio dopo il segnale acustico. Ne aveva già lasciati due.
Dove diavolo è?
Guardò di nuovo l'orologio. Era passato appena mezzo minuto da quando l'aveva guardato l'ultima volta.
Stirò il collo, cercando di dare sollievo alla tensione che sentiva tra le scapole. Gina avrebbe già dovuto essere arrivata nel suo ufficio da un pezzo. Visioni di lei che si aggirava senza meta per la città, stordita e confusa, si susseguivano nella sua mente. O peggio ancora, la vedeva rannicchiata dietro un mucchio di rifiuti in qualche vicolo, a nascondersi da nemici immaginali.
Inutile, non riusciva a concentrarsi. Riusciva solo a pensare a Gina.
C'era una sola cosa da fare: uscire a cercarla. Prese le chiavi della macchina e diede disposizione al centralino che se una Gina Panzella o una dottoressa Panzella avesse chiamato o fosse venuta lì di persona, la mettessero immediatamente in collegamento con il telefono della sua auto.
Nel caso che fosse nascosta nel suo appartamento, spaventata al punto da non rispondere neppure al telefono e rifiutandosi di aprire la porta, Gerry prese con sé anche l'elettrogrimaldello. Non si sa mai...
Uscì con la macchina dal parcheggio sotterraneo e si diresse sulla Pennsylvania verso la Casa Bianca, cercando di rifare a ritroso il percorso più logico che avrebbe fatto lei arrivando da Adams Morgan. Sarebbe venuta giù per la Connecticut, ma da lì in poi poteva solo fare supposizioni.
Continuò fino alla K Street, dove vide un paio di poliziotti in Farragut Square osservare un netturbino che spazzava via alcuni vetri rotti. Mostrò il tesserino d'identificazione e chiese che cosa era successo. Il più anziano dei due, un tipo tarchiato con i baffi, si abbassò al livello del finestrino. Aveva l'alito che puzzava di caffè rancido.
«Una macchina è saltata sull'aiola. Nessun ferito, l'autista è schizzato fuori ed è filato via. E scommetto di sapere perché.»
Gerry annuì. «Un ricercato.»
«Esatto.»
Solo per non lasciare nulla d'intentato, Gerry chiese: «Ricorda che tipo di vettura era?»
Il poliziotto scollò le spalle. «No. L'avevano già portata via quando siamo arrivati. Cerca qualcuno in particolare?»
«Non proprio. Era tanto per sapere.»
Mentre si allontanava, fece in modo di tenere a mente il luogo dell'incidente. Se non fosse riuscito a trovare Gina, avrebbe controllato più tardi l'immatricolazione della macchina. Ritornò sulla Connecticut. Forse il posto migliore da dove iniziare a cercare era l'appartamento di Gina.
Gina si appoggiò contro la parete, boccheggiante e tremante. Quando il dolore iniziò a farsi, da atroce, semplicemente lancinante, aprì la mano e guardò il piccolo grumo sanguinolento che giaceva nel palmo.
Preso.
Era salva. Anche se Duncan avesse inondato l'intero hotel di ultrasuoni, adesso non poteva più farle del male. Ma il suo lavoro non era ancoro finito: aveva un profondo e largo sfregio sulla gamba che doveva chiudere.
La prima cosa da fare, però, era mettere al sicuro la prova.
Si allungò verso il ripiano e afferrò la bottiglietta vuota di Coricidin. Con molta attenzione raschiò via dalla mano con l'imboccatura della boccetta l'innesto vischioso. Sapeva quanto diventavano fragili quei cosi, una volta che erano stati inseriti. L'innesto scivolò dentro la boccetta, lentamente, come una specie di lumaca scarlatta, e si adagiò sul fondo. Gina tappò il flacone e tornò a rivolgere la sua attenzione all'incisione sulla sua gamba.
L'emorragia era diminuita notevolmente. Il sangue che filtrava dal coagulo era denso, quasi sciropposo. Si allungò per prendere il set da cucito e cercò d'infilare l'ago. Le sue mani tremavano per l'adrenalina e il dolore, e i primi tentativi andarono a vuoto. Incominciò a temere che non ce l'avrebbe mai fatta, ma poi finalmente l'estremità del filo attraversò la cruna.
Pensò di sterilizzare l'ago con l'accendino, ma scartò l'idea: non poteva sterilizzare anche il filo, e d'altro canto la ferita era già ampiamente infettata. Era vaccinata contro il tetano, ma doveva prendere qualche antibiotico, una cefalosporina ad ampio spettro, per difendersi dall'inevitabile infezione che avrebbe fatto seguito a quell'intervento chirurgico effettuato senza alcuna sterilizzazione.
Trovò un compromesso, bagnando con acqua ossigenata sia l'ago che il filo. Li posò da una parte e si rimise in bocca l'asciugamano, poi tolse il grumo di sangue che si era formato sul taglio e vi spruzzò sopra direttamente l'acqua ossigenata. Gemette mentre dalla ferita sgorgava una schiuma rosa. Era come se uno sciame di calabroni arrabbiati avesse fatto il nido nella sua coscia.
Quando il dolore si fu calmato, si asciugò il sudore e le lacrime dagli occhi, premette l'uno contro l'altro i bordi della ferita e incominciò a suturare. Partì dall'estremità periferica, pensando che sarebbe stato più facile procedere verso di lei.
Sobbalzò quando s'infilò l'ago nella pelle: era doloroso, ma niente al confronto con quello che aveva già passato. L'ago era abbastanza affilato, ma era stato ideato per attraversare i tessuti, non per vincere la resistenza della pelle umana; inoltre era dritto, il che rendeva il compito molto più difficile.
Dimentica la lidocaina, si disse. Adesso darei qualsiasi cosa per un emostatico e un ago ricurvo.
Strinse la prima sutura con molta attenzione, temendo di tirarla troppo forte e di rompere il filo. Aveva comprato il più resistente che aveva trovato, però non era né di seta né di nailon, era semplicemente del buon vecchio filo da cucito. Questo rattoppo doveva servire a tenere i lembi della ferita a non più di qualche millimetro di distanza. Stretto il primo nodo, tagliò il filo in eccesso con le forbicine del set da cucito. Meno uno, pensò. Ne restano solo quattordici o quindici.
Mezz'ora dopo aveva finito. Pulì il sangue con l'acqua ossigenata ed esaminò il suo operato: sedici suture raggrinzite allineate in una fila ordinata. Asciugò la ferita, ci spalmò sopra la pomata a base di bacitracina, poi la coprì con una garza fermata con alcune strisce di cerotto e avvolse il tutto con la benda per tenere ben a contatto la medicazione. Dopodiché tirò fuori le gambe dalla vasca e si mise in piedi. Una miriade di macchie nere le esplosero improvvisamente davanti agli occhi, e qualcosa che sembrava un motore diesel le ruggì nella testa. Cadde su un ginocchio e si tenne avvinghiata alla toeletta fino a quando la stanza non smise di ondeggiare e girare. Appoggiò la fronte contro il marmo freddo e raccolse tutte le sue forze.
Era debole. Aveva immaginato che poi si sarebbe sentita debole, ma non credeva fino a questo punto. Si allungò, prese l'altro piccolo sacchetto che aveva acquistato al grande magazzino e ne tirò fuori una confezione di croccanti al cioccolato. La buona vecchia Pasta aveva sempre sofferto di attacchi di cioccolatite acuta nei momenti di stress, e non riusciva a resistere ai dolcetti. Questa volta Gina era felice di averle dato ascolto: aveva bisogno di calorie extra e del glucosio per riacquistare energia. Sapeva anche che aveva bisogno di fluidi. Dopo essersi divorata tre croccanti al cioccolato, riempì un bicchiere d'acqua fredda e lo bevve, poi mandò giù altre quattro aspirine con un secondo bicchier d'acqua.
Si sentì leggermente meglio, ma non ancora pronta per tornare in strada. Si sollevò, e, appoggiandosi con una mano contro il muro, s'incamminò verso il letto. Passò vicino alla televisione e la spense. Scostò le coperte e con cautela, delicatamente, si sdraiò tra le lenzuola fresche che la fecero rabbrividire. Adesso era al sicuro, doveva riposare un po'. Solo un sonnellino di un'ora o poco più, poi avrebbe chiamato Gerry. Aveva l'innesto, ora, poteva mostrargli una prova concreta. Doveva crederle. Tutti le avrebbero creduto.
Ma prima doveva dormire un po'...
34.
GIOVEDÌ POMERIGGIO
Gerry iniziò a sentirsi un po' in affanno.
Non sapeva come aiutare Gina. Per prima cosa era stato al suo appartamento. La sua macchina in strada non c'era. Aveva bussato ripetutamente alla porta e non aveva ricevuto nessuna risposta, così aveva usato l'elettrogrimaldello per entrare e scoprire che il posto era deserto: nessun segno di lotta, nessun messaggio, niente che potesse far pensare che quel giorno fosse successo qualcosa di diverso dal solito.
Aveva chiamato persino la clinica di Lathram, ma la segretaria aveva detto che Gina non c'era, e che per quel giorno non l'aspettavano. Gli era sembrato di percepire una sfumatura strana nella sua voce, come se volesse dire qualcosa di più, ma forse era solo quello che lui desiderava pensare.
Aveva chiamato tutti gli undici ospedali della città, e anche qualcuno del nord Virginia e del Maryland del sud, ma non aveva trovato nessuna Gina Panzella o Jane Smith che si adattasse alla sua descrizione. La stessa cosa con il dipartimento locale di polizia: nessuna Panzella o simile era iscritta sui registri degli arrestati.
E poi a un certo punto si era ricordato dell'incidente avvenuto quella mattina nelle vicinanze della Farragut Square. Aveva chiamato la polizia, e ora era lì a gironzolare intorno alla scrivania in attesa di una risposta. Non si aspettava di ricevere un grande aiuto da loro, ma non poteva trascurare neppure la minima possibilità.
Il telefono squillò.
«Agente Canney?» chiese una voce nasale. «Abbiamo l'identificazione del veicolo coinvolto nell'incidente di cui ci ha chiesto. È intestato a Regina Panzella, residente in Kalorama Road, qui nel Distretto.»
«Dannazione!» esclamò Gerry. Avrebbe dovuto controllare qualche ora prima. «E il rapporto dice che ha abbandonato la scena dell'incidente?»
«'Il conducente ha abbandonato il veicolo', dice il rapporto.»
«Nient'altro?»
«I testimoni affermano che era una donna, capelli neri, ed era l'unica a bordo.»
Si adattava perfettamente a Gina.
«Okay, grazie mille.»
«Dovere.»
E allora dov'era? si chiese Gerry. Si era schiantata con la macchina ed era corsa via, ma dove? Aveva piovuto per gran parte della mattinata. Quanto poteva essere andata lontana, a piedi sotto la pioggia?
Gerry prese l'impermeabile, con l'intenzione di andare a dare un'occhiata al luogo dell'incidente, ma mentre usciva gli venne in mente un'altra cosa. Chiamò la banca dati e chiese di identificare il numero di carta di credito di Regina Panzella e di controllare se quel giorno l'aveva usata, e dove. Chissà, forse aveva preso a nolo un'auto, o comprato un motorino. Chi poteva dire cosa avrebbe fatto?
Gerry uscì e si diresse verso Farragut Square, senza sapere ancora nulla sulla carta di credito di Gina; le indagini avrebbero richiesto un po' di tempo, avrebbe saputo tutto al suo ritorno.
In cuor suo, sperava che non ne avrebbe avuto più bisogno.
Duncan era esausto, frustrato, arrabbiato, e anche un po' spaventato. Ma almeno aveva smesso di piovere.
Era l'unica cosa buona che si potesse dire di quel pomeriggio. Si trovava sulla Diciassettesima, all'angolo con Farragut Square, a controllare i pedoni. Adesso erano molti più di prima: gli impiegati, usciti dagli uffici, iniziavano ad affollare i marciapiedi.
Alzò lo sguardo sulla statua dell'ammiraglio. Poco rispettosamente, un gabbiano stava appollaiato sulla sua testa.
Era quasi ora di andarsene. Aveva pattugliato la zona per ore, sia a piedi che in macchina. Era andato a nord fino al Scott Circle e a sud fino alla Casa Bianca, e non aveva trovato nessuna traccia di Gina.
Era la paura che lo faceva insistere e gli impediva di tornare a casa. E se Gina fosse riuscita a convincere il suo amico dell'FBI che aveva un innesto nella gamba? E se fosse addirittura riuscita a levarselo? Forse le carte in tavola erano cambiate durante il pomeriggio, mentre lui girovagava da quelle parti, e poteva essersi tramutato da cacciatore in preda a sua insaputa. Era meglio scoprirlo.
Guardò l'ora: Barbara doveva essere ancora in ufficio. Tirò fuori il cellulare e la chiamò.
«L'ha trovata?» furono le prime parole uscite dalla bocca della ragazza.
«Non sono stato così fortunato», rispose Duncan. «Ho telefonato solo per sapere se Gina si era fatta viva.»
«No, niente», disse Barbara. «Qualcuno l'ha cercata, ma...»
«Chi era?»
«Quel ragazzo con cui esce, Gerry Canney.»
Duncan s'irrigidì. Non prometteva niente di buono.
«Quando ha chiamato?»
«Nella tarda mattinata. La stava cercando.»
«Ti ricordi quello che ti ho raccomandato, vero?»
«Sì, certo. Gli ho detto soltanto che non c'era e che non l'aspettavamo per oggi.»
«Eccellente. Dobbiamo proteggere Gina fino a quando non sapremo che cos'ha e non la potremo aiutare.»
«Lo so. Solo che sembrava così preoccupato...»
«Siamo tutti preoccupati, Barbara.» Specialmente io. «Qualcuno mi ha cercato?»
«Solo un paio di chiamate per prendere un appuntamento. Il signor Covington ha telefonato per protestare perché ha annullato tutti gli interventi di questa mattina. Dice che sua moglie è isterica.»
«Ha quel naso da quasi cinquant'anni, riuscirà a sopravvivere anche se se lo tiene per un'altra settimana. Nessun altro? Non è venuto nessuno a cercarmi?»
«No, è stata una giornata abbastanza tranquilla.»
Questo era un sollievo. Nessuna telefonata o visita di poliziotti o agenti dell'FBI: faceva presumere che Gina non era ancora riuscita a convincere nessuno. Forse aveva ancora del tempo.
Tempo per cosa? Non vedeva l'utilità di continuare a cercarla in quella zona. Doveva ammetterlo: Gina se ne era andata. Aveva fermato un taxi, o si era infilata nel metrò, o semplicemente si era allontanata a piedi. In quel momento poteva essere in Virginia o nel Maryland. O negli uffici dell'FBI. Quello che era certo, era che se fosse stata ancora da quelle parti l'avrebbe vista.
Mise la mano in tasca per prendere le chiavi della macchina e trovò il trasduttore. Fu assalito da un turbinio di emozioni contrastanti. Se Gina in quel momento gli fosse passata accanto era sicuro che l'avrebbe usato senza esitare, non per malvagità, ma solo per l'istinto che sta alla base di tutti, l'istinto di conservazione. Eppure... Una piccola parte di lui era quasi felice che fosse riuscita a sfuggirgli.
Trovò le chiavi. Era venuto il momento di andare, ma dove? A casa, a sedersi ad aspettare che la scure gli cadesse sul collo? Anche se nessuno fosse venuto a mettergli le manette, il suo piano per l'indomani doveva essere modificato. Avrebbe semplicemente fatto il lifting al Presidente, dimenticandosi l'innesto. Avrebbe distrutto il TPD, e poi sarebbe stata la parola di Gina contro la sua.
Tranne che per quell'innesto nella sua gamba.
Maledizione, maledizione, maledizione! Le alternative possibili diminuivano con il passare delle ore.
Mentre si voltava per raggiungere la sua auto, vide una berlina passargli accanto e accostarsi al marciapiede a qualche metro da lui, direttamente sotto il cartello di divieto di sosta. Improvvisamente un campanello d'allarme risuonò nella sua testa, fece dietro front e attraversò la Diciassettesima, facendo attenzione a non voltarsi prima di aver raggiunto l'altro lato della strada. Mentre si mescolava alla folla degli impiegati che uscivano dagli uffici, gettò uno sguardo alle sue spalle e vide sul marciapiede un uomo giovane, dai capelli biondi, che osservava attentamente la piazza. Sembrava in cerca di qualcuno.
Sentì il terrore piombargli addosso, e dovette resistere all'impulso di scappare a gambe levate. Aveva già visto quell'uomo con Gina, all'udienza della Commissione per le Direttive: era Canney, l'agente dell'FBI.
È me che sta cercando?
Mantieni la calma, si disse, e ragiona. Come era possibile? Gli era passato proprio accanto. E inoltre, perché, tra tutti i luoghi possibili in città, avrebbe dovuto cercarlo proprio lì? No, stava cercando qualcun altro.
Sta cercando Gina.
L'eccitazione travolse Duncan. Fece un passo indietro e si nascose nel vano di una porta a osservare l'agente Canney.
Sono ancora al sicuro, pensò. Se lui non sa dove si trova Gina, allora nessuno è al corrente di quello che è accaduto.
Vide Canney passeggiare sull'erba e tra i cespugli e le panchine di Farragut Square, lo vide ispezionare l'intero perimetro e soffermarsi dove l'auto di Gina era andata a sbattere. I suoi gesti erano rapidi, efficienti, ma Duncan percepì anche una certa inquietudine nel suo atteggiamento. Stai perdendo tempo, avrebbe potuto dirgli.
Vide Canney perlustrare tutta la zona, poi risalire in macchina e allontanarsi.
Dopo quell'episodio, Duncan si sentì improvvisamente rianimato, rinvigorito. Non aveva più voglia di andare a casa, non ancora. Sarebbe rimasto da quelle parti ancora un po', almeno fino a quando non avesse fatto buio.
Gina si svegliò dolorante e confusa. Si girò sul lato destro, e le sembrò che qualcuno le stesse dando un morso alla coscia.
Era calda e fradicia di sudore; il reggiseno e le mutandine erano appiccicati alla pelle. Gettò via le coperte. Buio. Dove...?
Sbatté le palpebre e riconobbe la stanza dell'hotel. Subito le tornò tutto in mente: si era seduta sul bordo della vasca, si era incisa la carne e...
Si sedette ed ebbe la sensazione di essere stata un po' avventata. Certo, il riposo le aveva fatto bene, ma quanto aveva dormito? Girò la radiosveglia e vide l'ora: 17 e 05.
Mio Dio, ho dormito tutto il pomeriggio!
Si alzò in piedi e vacillando leggermente si diresse in bagno. Doveva vederlo, assicurarsi che c'era ancora.
C'era. La bottiglietta di Coricidin era dove l'aveva lasciata, sulla toeletta di marmo. Corse al lavabo e bevve tre bicchieri d'acqua senza mai distogliere lo sguardo dall'innesto, che adesso era diventato marrone e con la superficie screziata dal sangue essiccato.
Lo prese e ritornò in camera. Era ancora debole, ma si sentiva molto meglio. Con cautela si sedette sul bordo del letto. Era arrivato il momento di chiamare Gerry, il momento d'incontrarlo e di mostrargli che non era una pazza visionaria.
Prese la linea esterna e compose il numero del suo ufficio. L'operatore le disse che in quel momento non c'era, ma che poteva lasciargli un messaggio, se lo desiderava.
«Quando torna?»
«L'agente Canney non l'ha detto. Posso chiederle come si chiama, per favore?»
«Non importa», rispose Gina. «Richiamerò più tardi.»
Forse si era stancato di aspettarla e se ne era andato, pensò. Lo chiamò a casa, ma rispose la segreteria telefonica. Evidentemente era ancora in giro; doveva aspettare fino a quando non fosse passato a prendere Martha e fosse ritornato a casa... Sempre che si stesse dirigendo a casa. Si chiese se Gerry potesse essere in ansia per lei: sarebbe stato di conforto sapere che in quel momento c'era qualcuno, oltre a Duncan, che si chiedeva dove fosse finita.
Svolse la fascia dalla gamba per controllare la garza sottostante, e notò che il sangue cominciava a filtrare. La tolse con cautela, perché l'unguento antibiotico faceva da collante. L'incisione era a posto, il filo sembrava tenere. Ma improvvisamente, guardando bene la ferita e la bottiglietta con l'innesto insanguinato, Gina si sentì pervadere da un senso di disperazione opprimente.
Gerry non mi crederà.
Quell'idea la fece star male. Che cosa avrebbe pensato vedendo quella cosa insanguinata nella bottiglietta? Nessuno l'aveva vista estrarla, nessuno aveva assistito all'intervento. E chi poteva dire che non si fosse tagliata apposta e imbrattato l'innesto con il sangue per convincere gli altri della sua fissazione? L'automutilazione non era un fenomeno raro in certe forme di psicosi. O probabilmente le avrebbero diagnosticato una qualche forma di mitomania. In effetti aveva compiuto un gesto drastico, estremo, qualcosa che poteva apparire strano, se non addirittura folle, a chi non era in grado di comprendere appieno la minaccia costituita da quell'innesto.
In breve, mostrando a Gerry quell'innesto insanguinato e dicendogli che se lo era estratto da sola dalla gamba, correva il rischio di confermargli i peggiori timori che lui aveva sulla sua salute mentale: la sua paranoia l'aveva condotta al punto di automutilarsi.
Gina nascose il viso tra le mani, singhiozzando. La sua disperazione proruppe nel silenzio della piccola stanza: «Che cosa devo fare?»
Doveva trovare qualcuno che le avrebbe creduto, qualcuno che non pensasse che aveva visto troppe puntate di Ai confini della realtà...
Un lampo le attraversò la mente: Oliver.
Ma certo! Oliver le avrebbe creduto. Era l'unica persona al mondo, oltre lei e Duncan, a conoscere sia il TPD che gli innesti. Lui avrebbe capito perché era arrivata al punto di ferirsi per estrarre quella sostanza dal suo corpo.
Ma come avrebbe reagito nel sapere che dietro a tutto questo c'era Duncan? Oliver era molto legato al fratello maggiore, maledizione, quasi l'adorava! Avrebbe accettato l'idea che Duncan stava facendo del male a qualcuno?
Un altro pensiero la colpì, devastante: e se anche Oliver fosse stato coinvolto?
No, non poteva crederlo. Oliver era più retto della retta via. Si sarebbe sentito sopraffatto dal pensiero che i suoi innesti, invece di guarire, facevano del male alla gente. E poi, se fosse stato coinvolto, non le avrebbe mai rivelato il nome del dottor VanDuyne.
Ecco, decise, ne avrebbe parlato a Oliver, e quando lui si fosse convinto sarebbero andati da Gerry o dai Servizi Segreti, o da chiunque poteva fermare Duncan.
Si alzò di scatto ma dovette risedersi subito, era ancora debole. Forse prima era meglio mangiare qualcosa. Niente cena... solo qualche croccante. Ma no, si disse poi, se non faceva in fretta scorta di calorie sarebbe andata in cerca di guai. Chiamò il servizio in camera e ordinò hamburger, patatine e una Coca: proteine, carboidrati e caffeina. Avrebbero dovuto tenerla su per un po'.
Si alzò di nuovo, questa volta più lentamente, e si diresse al bagno. Mise nuove garze pulite sulla ferita e le assicurò con la fascia, poi indossò la felpa e con molta attenzione s'infilò i jeans. Quando bussarono alla porta, Gina aveva ripreso un aspetto quasi normale.
Si mise a guardare fuori dalla finestra, mentre il cameriere sistemava il carrello e scopriva i piatti. Il profumo le fece venire l'acquolina in bocca: non si era accorta di quanto fosse affamata. Era il crepuscolo; trangugiò il cibo e decise di aspettare che fosse completamente buio, poi sarebbe uscita, avrebbe preso il primo taxi libero e si sarebbe diretta per la strada più breve a casa di Oliver. Oliver viveva nella parte più a nord del Distretto; ci era stata una volta a cena: un grazioso piccolo ranch in una zona carina, ma niente a che vedere con la classe del quartiere in cui viveva suo fratello.
Probabilmente non era il caso di aspettare fino al calar del buio, pensò Gina. Di certo Duncan a quell'ora era già lontano.
Rintracciare la carta di credito di Gina aveva preso più tempo di quello che Gerry si aspettava. Chiamò la signora Snedecker, e le chiese se poteva tenergli Martha per qualche ora in più e prepararle anche la cena. Poi parlò con Martha, le disse che avrebbe fatto tardi e che sperava che non le dispiacesse troppo. «Okay», aveva risposto la piccola. Era una vera fortuna che avesse simpatia per la signora Snedecker.
Dopo pochi minuti, la pista della carta di credito diede il suo effetto: Gina aveva usato la sua Visa al Tremont Hotel in K Street.
K Street! Cristo, ci era appena stato! Cosa era andata a fare al Tremont, a nascondersi?
Confuso come non mai, si fece dare il numero dal servizio informazioni e chiese al centralino dell'hotel di metterlo in contatto con la signorina Panzella. Lasciò suonare il telefono una dozzina di volte, fece per riagganciare, poi decise di lasciarlo suonare ancora, ma nessuno rispose.
Dove diavolo era andata? Se aveva già lasciato l'albergo, il centralino non gli avrebbe passato la sua stanza. Era troppo impaurita per rispondere?
Gerry afferrò l'impermeabile e uscì.
Mentre la notte allungava le sue ombre scure sulla città e i lampioni riprendevano a vivere, raggianti nell'aria nebbiosa, Duncan decise di interrompere le sue ricerche. Evidentemente Gina non era più da quelle parti, molto probabilmente se n'era andata da ore. Era inutile rimanere ancora lì.
Ma non poteva lasciare che le cose finissero così, c'erano ancora troppi conti in sospeso. Mentre s'incamminava verso la macchina, fece ancora un ultimo esercizio mentale.
Se io fossi Gina, e se fossi ancora nei paraggi, dove potrei essere? Dove mi sarei potuto nascondere per così tanto tempo?
Continuò a ripetersi la domanda mentre camminava lungo il lato nord della piazza. Stava girando sulla K Street, quando l'insegna del Tremont Hotel catturò la sua attenzione. Si fermò, scosse la testa, fece pochi passi, poi si fermò ancora a guardare. L'aveva già vista, ma...
Poteva aver preso una stanza? Poco probabile. Sì, la possibilità che Gina si fosse precipitata lì dentro, avesse preso una stanza e la stesse usando come un posto sicuro per incontrarsi con il suo uomo dell'FBI c'era, ma ovviamente non l'aveva fatto, altrimenti l'agente Canney non se ne sarebbe stato a girovagare per Farragut Square come un'anima in pena. E non riusciva proprio a immaginare che Gina avesse passato tutto il pomeriggio davanti alla televisione.
Eppure... Quello era l'unico posto dove non l'aveva ancora cercata. In fondo non ci sarebbe voluto molto tempo per sincerarsene, si disse. Cos'erano pochi minuti in più, in confronto a tutto il tempo che aveva sprecato fino ad allora?
Entrò nella hall e si diresse verso la reception. Il giovane al di là del banco sembrava attenderlo. Duncan si rese conto che non poteva chiedere direttamente di Gina: in nessun hotel decoroso avrebbero dato a un estraneo il numero della stanza di un'ospite. Sorrise al ragazzo, che portava un cartellino con sopra il nome «Roy», e gli chiese: «Dove posso fare una telefonata?»
Roy indicò l'angolo più lontano dell'atrio. «Dritto in fondo, vicino alla felce, appena passati gli ascensori.»
Duncan ringraziò. Trovò una fila di telefoni, e dal più vicino compose lo zero.
Quando l'operatrice rispose, disse: «La stanza della signorina Panzella, per favore», e rimase sorpreso quando la centralinista inoltrò la comunicazione.
Sbalordito, ascoltò il telefono suonare, chiedendosi che cosa le avrebbe detto se avesse risposto. Ma non poteva dire niente. Non poteva farle capire che l'aveva trovata.
Riagganciò il telefono e si appoggiò al muro.
È qui.
Probabilmente era stata lì per tutto il giorno. Ma cosa aveva fatto per tutto quel tempo, e perché si era registrata con il suo nome? Quella era una stupidaggine, e Gina poteva essere tutto tranne che una stupida.
Al momento non aveva importanza. Niente era importante, tranne il fatto che l'aveva finalmente trovata. Adesso aveva solo bisogno del numero della sua stanza. Guardò verso la reception: Roy era lì da solo. Forse con un biglietto da cento dollari...
In quel momento la porta girevole iniziò a muoversi, e nell'atrio comparve l'agente Canney. Duncan rimase impietrito, con il cuore che batteva all'impazzata.
No! Non ora che sono così vicino!
Si nascose dietro la grande felce e si mise a sbirciare tra le foglie. Canney mostrò il distintivo all'uomo dietro al banco. Sembrava agitato. A quanto pareva, Gina era finalmente riuscita a mettersi in contatto con lui. Ma se era così, perché aveva mostrato il distintivo?
Che importa? si disse Duncan. La soluzione gli si era presentata da sola. Gli ascensori erano a pochi metri da lui: Canney sarebbe salito nella stanza di Gina e l'avrebbe condotta giù, o forse l'avrebbe chiamata e aspettata di sotto. In ogni caso, lei sarebbe passata vicino a dove Duncan si trovava in quel momento.
Estrasse il trasduttore dalla tasca. Gina sarebbe passata entro il raggio d'azione dell'apparecchio. Avrebbe sentito una fitta alla coscia e nient'altro. Probabilmente avrebbe avuto il tempo di arrivare alla sede dell'FBI prima che il TPD entrasse in azione.
Tutto quello che doveva fare era aspettare. Aveva atteso tutto il giorno, poteva aspettare ancora un po'.
«Voglio il numero della stanza e voglio anche la chiave, e li voglio subito!» stava dicendo Gerry.
L'impiegato alla reception chiamò il direttore, Joel Heinrich, a quanto diceva la sua targhetta. Era un ometto irritabile, piccolo e con baffi sottili.
«Sono sicuro che ha un mandato per questo genere d'ispezione», disse a Gerry con sussiego. «Non sono autorizzato ad accompagnarla nella stanza di un'ospite.»
«La dottoressa Panzella non si è sentita bene ultimamente», improvvisò Gerry, «e non risponde al telefono. Potrebbe essere svenuta.»
Il direttore sbiancò in volto. «È malata? Intende dire che potrebbe avere qualcosa di contagioso?»
Gerry abbassò la voce e si preparò a dargli il colpo di grazia. «Non lo sappiamo ancora. Speriamo di no. Qualcosa è andato storto in laboratorio. Vogliamo trovarla e metterla in quarantena facendo il meno rumore possibile, lei capisce cosa intendo dire.»
Heinrich capiva esattamente quello che Gerry intendeva dire. Annuì e prese il telefono. «Molto bene. Ma mi lasci fare ancora un tentativo.»
Compose un numero di quattro cifre, attese un istante, poi riappese l'apparecchio.
«Potrebbe essere uscita per andare a mangiare.»
«Speriamo», rispose Gerry, ma non ne era convinto. Voleva trovarla e risolvere questo pasticcio. «Se le cose stanno così, aspetterò fino al suo ritorno.»
Heinrich prese una chiave dal quadro. «Le faccio strada», disse.
Qualche minuto più tardi erano al quinto piano, e il direttore stava bussando alla porta della 532. Gerry aspettava con impazienza dietro di lui; era ansioso di entrare, ma allo stesso tempo temeva quello che avrebbe potuto trovare al di là della porta.
«Dottoressa Panzella? Dottoressa Panzella, sono il direttore.»
Nessuna risposta.
Dio, fa' che non sia nulla di grave, pregò Gerry mentre Heinrich infilava la chiave nella serratura. Per favore.
Non appena udì il chiavistello scattare, spinse da parte il direttore ed entrò.
«Aspetti qui.»
Le luci erano accese. Un hamburger mezzo sbocconcellato e delle patatine fritte galleggiavano nella Coca Cola rovesciata sul carrello; il letto era vuoto.
«Gina?» chiamò.
Entrò nel bagno. Un pugno lo colpì allo stomaco alla vista della lametta insanguinata nel lavabo. Si avvicinò, e la sua attenzione fu catturata dalle macchie rosse nella vasca da bagno. La porcellana era tutta schizzata di sangue.
Cristo, cosa è successo qui?
Appoggiò una mano contro il muro e si chinò in avanti per esaminare la vasca e il lavabo. C'erano la lametta insanguinata, una bottiglia di alcol e una di acqua ossigenata, un ago con del filo... Un ago insanguinato.
«Dio, Gina», sussurrò. «Gina, Gina, che cosa hai fatto?»
Prima le fantasie sull'operazione al Presidente, e adesso... questo, qualunque cosa fosse.
Ritornò nella stanza e ci trovò Heinrich, piuttosto confuso.
«C'è qualcosa che non va? È qui?» domandò.
Gerry gli passò accanto e controllò l'armadio: vuoto. Un'occhiata al letto lo informò che non c'era posto per nascondercisi sotto.
«Se n'è andata», disse spingendo Heinrich fuori dalla stanza. «Mi ascolti bene, voglio che questa stanza sia sigillata. Nessuno, e dico nessuno, deve entrarci. Niente pulizia, niente cameriere, né lei, né altri. Sono stato chiaro?»
«Ma perché?»
«Per il momento la considero come possibile scena di un crimine, perciò, se questa stanza verrà ancora aperta, l'accuserò di intralcio alla giustizia e favoreggiamento. Ci siamo capiti?»
«Sì, sì, certamente.»
Heinrich prese la targhetta con su scritto «non disturbare» e l'appese alla porta. Poi si assicurò bene dell'avvenuta chiusura.
«Lascerò detto che alla 532 è vietato l'accesso fino a nuovo ordine.»
«Bene.»
Già, bene, molto bene. Heinrich sapeva quello che doveva fare. Ma lui, che cosa doveva fare? Era terribilmente preoccupato. Che cosa era successo in quel bagno? E dov'era Gina in quel momento?
Doveva trovarla, e in fretta. Se non era già troppo tardi.
C'è qualcosa che non va.
Duncan rimase stupito e deluso quando Canney ridiscese nell'atrio senza Gina, ma poi notò la sua espressione seria e preoccupata, e capì che non aveva trovato quello che si aspettava nella stanza di Gina.
Avrebbe dato qualsiasi cosa per avere la chiave di quella stanza. Cosa aveva visto Canney?
«Ha qualche domanda?» lo sentì chiedere al direttore. «Avete la sua descrizione e il mio biglietto da visita. Se qualcuno la vede lei mi chiami immediatamente, capito?»
Il direttore annuì e borbottò qualcosa che Duncan non riuscì a sentire; ma non aveva importanza, Gina non era più qui. Se ne era andata senza farsi vedere, e Canney non si aspettava che tornasse presto, altrimenti sarebbe rimasto nei paraggi.
Lo vide andarsene, ma preferì restare dietro la felce ancora per un po', per lasciargli il tempo di raggiungere la macchina. E dare a se stesso il tempo di pensare alla prossima mossa.
Gina si era dimostrata odiosamente imprevedibile. Con il passare delle ore, mentre lei continuava a restargli fuori portata, Duncan sentiva i nervi logorarsi.
Quando aveva preso la stanza, e per quanto tempo ci era rimasta? E, per tutti i diavoli, adesso dov'era? Era tornata nel suo appartamento?
Sospirò. Dove altro poteva cercare? Sarebbe tornato all'Adams Morgan a dare una controllata, e se non fosse stata lì, l'unica cosa da fare era di tornare a casa ad aspettare.
Se non la trovava in fretta, avrebbe dovuto cambiare i piani per il giorno dopo. E non voleva doverlo fare.
35.
GIOVEDÌ SERA
Gina sporse la testa fuori dal finestrino del taxi e guardò nervosamente da una parte e dall'altra della Connecticut Avenue.
«Non dovrebbe essere già qui?»
Il tassista era appoggiato al paraurti accanto al cofano aperto, e fumava tranquillamente un piccolo sigaro.
«L'ho chiamato. Arriverà tra qualche minuto.»
Gina ritrasse la testa. Non voleva restare fuori sulla strada in piena vista, era quella la ragione per cui aveva chiesto al tassista di chiamare un collega. Ma forse avrebbe dovuto arrischiarsi a prendere un taxi di passaggio. Ne erano passati a dozzine. A quest'ora sarebbe stata già lungo la strada che l'avrebbe portata da Oliver.
Ma quella chiamata all'hotel... Il cuore le palpitava ancora per lo spavento che si era presa. Aveva rovesciato la Coca Cola e per poco non si era strozzata con le patatine fritte, quando aveva sentito suonare il telefono. Forse era stato un disguido, qualcuno che aveva sbagliato numero, o forse no. Forse era Duncan. Mio Dio, non voleva neanche pensarci. O magari era stato Gerry. Chissà, forse non l'avrebbe mai saputo.
Qualunque ne fosse stata l'origine, l'improvviso squillo del telefono l'aveva sconvolta. Era rimasta a guardarlo in preda al terrore con le pulsazioni alle stelle per qualche secondo, poi era scappata via. Qualcuno l'aveva trovata, qualcuno sapeva dov'era. Non riusciva a pensare ad altro, non aveva preso nessuna precauzione. Aveva infilato le scale, aveva attraversato la hall zoppicando ed era uscita in strada.
Pensandoci ora, capì quanto era stata insensata. Ma in quel momento doveva assolutamente uscire, non poteva aspettare nemmeno un secondo. L'hotel che per tutto il pomeriggio era stato il suo rifugio, si era improvvisamente trasformato in una trappola.
Per fortuna nell'atrio non c'era nessuno. Quello era stato il suo colpo di fortuna; la sfortuna era stata invece prendere quel taxi che era rimasto in panne a pochi isolati dall'hotel.
«Sta arrivando», annunciò l'autista.
Gina allungò il collo e vide un altro taxi della stessa compagnia che si stava avvicinando. Scese, ringraziò il tassista e s'infilò nel taxi appena arrivato. Diede all'autista l'indirizzo di Oliver, l'auto partì sobbalzando e lei venne sballottata contro il sedile. Sussultò per il dolore lancinante alla gamba.
Respirò profondamente. Era di nuovo in corsa. Basta disavventure, ora: sul serio, quante erano le possibilità di prendere due taxi di fila che la lasciassero tutti e due a piedi? Minime. Poteva rilassarsi e incominciare a prepararsi mentalmente quello che avrebbe detto a Oliver.
Il taxi si fermò allo stop al Dupont Circle, e Gina diede un'occhiata fuori dal finestrino. Un brivido freddo le corse lungo la schiena quando nel suo campo visivo entrò un cofano nero con la stella a tre punte. Trattenendo il fiato si acquattò contro lo schienale cercando di nascondersi alla vista dell'altra macchina.
È solo una Mercedes nera, si disse. Ce ne sono a centinaia in città.
La Mercedes fece un piccolo scatto in avanti, ansiosa che venisse il verde. Gina incominciò a vedere il parabrezza, poi il volante e le mani che lo tenevano, le mani di un uomo. E poi ecco l'autista.
Era Duncan.
Stai calma, stai calma, non può vederti.
Ma lui era lì, a meno di due metri da lei. Era rimasto da quelle parti fino a quel momento? Dio mio, pensò, avrei potuto incontrarlo fuori dall'hotel. Poteva essere stato lui a telefonarle, però non l'aveva visto nell'atrio. Forse aveva chiamato tutti gli alberghi del centro, chiedendo che gli passassero la stanza di Gina Panzella. Ma allora perché si stava allontanando dal Tremont, invece di recarvisi? Non aveva senso, nulla aveva un senso...
Si rannicchiò, pregando che il semaforo diventasse presto verde. Quando finalmente accadde, il taxi e la Mercedes entrarono nella piazza. Ma a metà della rotonda, la macchina di Duncan prese la direzione della Connecticut mentre il taxi continuò verso la P Street.
Gina si abbandonò sul sedile. Era salva. Ma dove stava andando Duncan? La Connecticut non lo portava verso casa. Quella era la strada per... per casa sua.
Il taxi girò sulla Wisconsin verso Bethesda, e Gina si mise a ponderare le opzioni possibili. Il suo piano originale prevedeva di chiamare Oliver dall'albergo prima di recarsi da lui, ma poi era fuggita prima di averne il tempo. Forse era stato meglio così, forse era meglio comparirgli davanti all'improvviso. Cosa sarebbe successo se Oliver avesse parlato a Duncan prima del suo arrivo?
Rabbrividì. Sì, era più sicuro bussare alla porta di Oliver.
Notò l'Osservatorio Navale sulla destra, stava arrivando a destinazione.
Il taxi lasciò la Wisconsin, e lei iniziò a guardarsi in giro per vedere se c'era qualche traccia di una Mercedes nera. Non riusciva a vedere come avrebbe potuto Duncan arrivare lì prima di loro dopo aver preso la Connecticut, ma aveva imparato una cosa a sue spese in tutta quella faccenda: mai dare per scontato nulla, quando si trattava di quell'uomo.
Nessuna Mercedes in vista. Pagò il tassista e si affrettò verso la porta. Suonò il campanello. Chi le avrebbe aperto? Aveva paura, la sua vita si era trasformata in un film di Hitchcock. Non si sarebbe sorpresa più di tanto se si fosse trovata di fronte Duncan.
«Gina?» si stupì Oliver aprendo la porta interna. «Come mai sei qui?» Aprì la porta con la zanzariera. «Entra, entra.»
«Non disturbo, spero», disse lei, dando una rapida occhiata al soggiorno e alla sala da pranzo. «Non hai ospiti, vero?»
Lui le sorrise e richiuse la porta. Indossava un maglione sopra la solita camicia bianca, e portava le pantofole.
«No, ma forse sarebbe meglio che ne avessi. Sono troppo eccitato per dormire. Sono felice che tu sia venuta.»
«Non lo sarai quando avrò finito.»
Il suo sorriso svanì. «C'è qualcosa che non va?»
«Sì», disse Gina prendendo una boccetta dalla tasca e mettendogliela in mano. «Questo.»
«Un innesto?»
«L'ho tirato fuori questa mattina dalla mia gamba.»
Oliver la fissò sconcertato. «Cosa? Come...?»
Gina decise di dirgli tutto in una sola volta. Osservò attentamente la sua espressione: se anche per un solo istante non si fosse dimostrato sconvolto, o avesse finto di sorprendersi, si sarebbe precipitata fuori della porta.
«Duncan me lo ha infilato nella gamba ieri sera, mentre ero priva di sensi. Mi ha inseguito per tutto il giorno per cercare di dissolverlo con gli ultrasuoni.»
Un sorriso forzato comparve sul viso di Oliver. «È uno scherzo, vero? Tu e Duncan...»
«Non è uno scherzo, Oliver. È pieno di TPD.»
«TPD?» ripeté, sorridendo ancora. «E cos'è?» Poi il sorriso scomparve. «TPD? Come fai a conoscere il TPD?»
«Dietilamide triptolinica. Duncan ne ha una fiala nel suo ufficio.»
«Impossibile, è un composto fuori produzione.»
«Lo so. Testato e scartato dalla GEM Pharma, la tua vecchia compagnia.»
«Giusto. Ho io l'ultimo campione.»
«Davvero? E dov'è?»
«Nello scantinato. Vieni, te lo mostro.»
La condusse attraverso la sala da pranzo fino alla cucina, poi scesero una scala.
«Questo è il mio laboratorio privato», le disse accendendo delle lampade al neon. «Per anni ho passato qui ogni sera e ogni momento libero dei fine settimana.»
Gina si guardò intorno. Era un ampio scantinato con dei banchi di lavoro, storte, forni, centrifughe e altri attrezzi che non conosceva, tutti coperti di polvere.
«È qui che...?»
«Sì. È qui che ho sviluppato la membrana dell'innesto. E lì...» disse accendendo un'altra fila di luci, «c'è quello che io chiamo il mio schedario dei criminali: tutti composti inutili, o la cui ricerca è stata abbandonata durante i miei anni alla GEM. Ho tenuto un campione di ognuno.»
Gina rimase allibita: un'intera parete era coperta di bottigliette allineate. Dovevano essere centinaia, forse un migliaio.
«Sono tantissime! Come puoi trovarne una in particolare?»
«Be', è semplice. Sono in ordine alfabetico.» Oliver aveva l'aria di scusarsi. «Non posso farci nulla, sono fatto così.»
Si fermò e incominciò a scorrere le file con il dito. «R, S, T...» Sbirciò tra le bottiglie, grugnì un paio di volte, poi si raddrizzò e si girò verso Gina. «Il TPD non c'è.»
«Lo so», rispose lei indicando la bottiglietta che lui teneva ancora nella mano sinistra. «Una parte è lì dentro, e Duncan ha il resto.»
Oliver fissò prima la boccetta, poi Gina. «Devi esserti sbagliata. Duncan non farebbe mai una cosa del genere. E poi, che motivo avrebbe per farlo?»
«Perché io so degli altri.»
«Quali altri?»
«Andiamo di sopra e ti spiegherò tutto.»
Si sedettero in cucina, con la boccetta con dentro l'innesto lì, al centro del tavolo. Oliver si era sporto in avanti e ascoltava con attenzione. Dal suo viso traspariva una crescente sensazione di orrore man mano che Gina gli raccontava i suoi sospetti circa le morti e le disgrazie che avevano coinvolto i senatori Vincent e Schulz e i deputati Allard e Lane.
Gina rabbrividì improvvisamente dal freddo: era la Pepsi che stava bevendo, o le era venuta la febbre? Le forze stavano svanendo.
«Ti senti bene?» chiese Oliver.
«Forse è un inizio d'infezione all'incisione.»
«Quale incisione?»
Dato che un'immagine vale più di mille parole, Gina si alzò, aprì la lampo, si girò di lato e si tirò giù i jeans fino al ginocchio.
«Gina!» esclamò Oliver distogliendo lo sguardo, ma poi ritornò a guardare quando vide la fasciatura.
Gina svolse la benda, poi abbassò la garza a metà per fargli vedere l'incisione. Era infiammata.
«Oh, Signore. Hai fatto questo? Da sola?»
Gina lo lasciò osservare bene, poi con calma rimise a posto la garza e iniziò a fasciare la ferita.
«Cos'altro avrei potuto fare per toglierlo, Oliver?»
Lui non rispose. Rimase seduto a fissarla, sbalordito.
«Hai qualche antibiotico in casa?» gli chiese tirandosi su i jeans.
«Ho un po' di amoxicillina.»
Non era proprio l'ideale, ma per il momento andava bene. «Posso averne un po'?»
«Certo.»
Corse via e tornò un minuto più tardi con un flacone di plastica ambrato. Gina buttò giù quattro capsule da cinquecento milligrammi con dell'acqua e se ne mise in tasca altre quattro da prendere più tardi.
Oliver fissò la bottiglietta con l'innesto e scosse la testa. «Io... io non riesco a credere che Duncan volesse farti una cosa del genere. Bah, forse ai membri della Commissione, posso capirlo... Intendo dire, dopo la morte di Lisa era fuori di senno, se ne usciva con ogni specie di minaccia... Ma a te... Pensa ogni bene possibile di te... Non ha mai...»
Povero Oliver, pensò Gina. L'immagine eroica del fratello maggiore sta iniziando a sgretolarsi.
«Sa che ho capito tutto», disse Gina con un filo di voce. «E sa che gli metterò i bastoni tra le ruote, domani.»
Oliver alzò di scatto la testa. «Domani? Oh, no! Non penserai... Non potrebbe!»
«Sì che potrebbe. Ecco perché mi ha fatto questo: per andare sul sicuro con il Presidente.»
Oliver balzò in piedi. «Devo vederlo. Devo fermarlo. Posso parlargli, mi ascolterà.»
«Lo farà? Non ci conterei troppo.»
«Dovrà farlo. Adesso sono due le persone che lo sanno, e presto ce ne saranno delle altre.» Afferrò la giacca che era appesa allo schienale della sedia. «Ormai è sconfitto. Ma devo vederlo.»
La rabbia balenava dai suoi occhi. «Ha usato un mio innesto per fare una porcheria del genere. Ho proprio intenzione di...» Non finì la frase. Indicò la bottiglietta sul tavolo. «Posso prenderla?»
Gina l'afferrò e la strinse saldamente in pugno.
«No. Mi dispiace, ma questa è la sola prova che ho e tutto si basa su questo. Non posso perderla di vista. Capisci, non appena l'affronterai verrà a sapere in che modo l'hai saputo, e saprà dove sono. E dal momento che io ho l'unica prova concreta contro di lui, forse è meglio che sparisca per un po'.»
«È una buona idea. Non dirlo neppure a me dove stai andando, sai, nel caso che...» Scosse la testa sconsolato. «Chi l'avrebbe mai detto che sarei arrivato a pensare questo di mio fratello?»
«Capisco quello che provi. Puoi chiamarmi un taxi?»
Un secondo brivido le fece battere i denti, mentre Oliver chiamava la compagnia dei taxi. Sicuramente era febbre. Qualunque cosa l'avesse infettata, sperava che non fosse resistente alla penicillina.
«Arriverà tra una decina di minuti», disse Oliver. «Ora telefono a Duncan.»
«No!»
«Solo per sapere se è a casa. Non ha senso che vada da lui se non c'è.»
Compose il numero, attese un attimo, poi parlò. «Duncan, sono io. Dobbiamo parlare. No, non per telefono. Ti spiegherò tutto quando sarò lì. Ci vediamo tra pochi minuti.»
Riagganciò il telefono e si affrettò verso la porta. «Augurami buona fortuna», le disse. «E chiudi la porta quando esci.»
Gina tremò di nuovo mentre la porta si chiudeva alle spalle di Oliver. Era quasi finita. Duncan era a casa sua, Oliver ci stava andando, e un taxi stava venendo a prenderla. Ma per andare dove?
Non in un altro hotel. Non sopportava l'idea di chiudersi in un'altra piccola scatola con un letto e una televisione che facevano passare per una stanza.
La casa dei suoi genitori? La sua vecchia casa... L'idea le piaceva. Avrebbe fatto una piccola sosta nel suo appartamento per cambiarsi i vestiti, poi si sarebbe diretta verso Arlington. Là sarebbe stata al sicuro. Un altro tremito la scosse da capo a piedi. Si sentiva scottare.
Ma dov'era il taxi? Guardò fuori dalla finestra, ma il passo carraio era vuoto. Attraversò il salone e trovò il bagno di Oliver. Sulla mensola più alta dell'armadietto delle medicine c'era il termometro. Lo sciacquò, l'agitò e se lo cacciò in bocca. Dopo un paio di minuti controllò la temperatura: quasi trentanove gradi.
Non c'è da meravigliarsi se tremo, pensò.
Bene, aveva due grammi di amoxicillina che si stavano facendo strada nella sua circolazione sanguigna. Tra poco avrebbero fatto effetto.
Sentì un clacson suonare. Corse di nuovo nel soggiorno e sbirciò fuori dalla finestra. Il cuore le batteva forte, sia per la febbre, sia per la paura.
Se fossi finita dentro un film di serie B, pensò, fuori ci sarebbe una Mercedes nera ad aspettarmi.
E invece no, era un taxi della Diamond. Corse fuori, pensando che, sempre nel suo film da quattro soldi, avrebbe trovato Duncan al posto di guida, travestito da autista. Ma mentre si avvicinava, una faccia nera sbucò dal finestrino e le aprì dall'interno lo sportello.
«Dove andiamo, signora?»
Gina gli diede il suo indirizzo e partirono. Si raggomitolò sul sedile, tremante.
«Potrebbe alzare il riscaldamento?» chiese.
Aveva così freddo che le battevano i denti.
Duncan sedeva in silenzio, scosso. L'arrivo di Oliver l'aveva colto completamente impreparato. Non aveva mai visto suo fratello in quello stato. Era entrato di corsa, e immediatamente si era lanciato in un infuocato attacco verbale. Duncan non sapeva cosa l'aveva colpito di più, se la schietta e virtuosa rabbia di Oliver, oppure il fatto che Gina fosse andata da lui e gli avesse raccontato tutto.
Le parole scaturivano da Oliver come un'incessante scarica di fucileria. Non solo la sua rabbia, ma anche la storia di Gina che si incide la gamba in quell'hotel e rimuove l'innesto con un equipaggiamento da supermercato! Malgrado la cosa l'avesse sconvolto, Duncan ammirava la ferma determinazione e il coraggio che Gina aveva dimostrato. Non era sicuro che sarebbe riuscito a fare la stessa cosa al suo posto, ma era felice di non averla sottovalutata. Quasi se l'era immaginata una situazione del genere. Quella giovane donna non conosceva il significato della parola «fine», ed era intenzionata come non mai a fermarlo.
E adesso poteva farlo davvero. Tutto il suo mondo sembrava cadergli addosso. Visioni di titoli sui giornali, di aule giudiziarie e - mio Dio! - della cella di una prigione gli turbinavano vorticosamente intorno. Stava crollando tutto...
Riprese il controllo di sé e spazzò via le visioni. Doveva calmarsi e occuparsi di Oliver. La situazione forse era ancora ricuperabile, purché si muovesse in fretta. Ma prima di poter fare qualcosa, doveva neutralizzare Oliver.
«Dimmi esattamente che cosa ti ha raccontato, Oliver: cosa ha detto che si è estratta dalla gamba?» chiese Duncan.
«Un innesto, uno dei miei innesti, e pieno di TPD, oltre tutto.»
Duncan scattò in piedi e assunse un atteggiamento ferocemente indignato. «E tu credi a una storia simile?»
Ma Oliver non fece marcia indietro.
Si sporse verso Duncan e parlò guardandolo dritto negli occhi. «Ha un innesto insanguinato dentro una bottiglietta, me lo ha mostrato, e ha un'incisione fresca fresca nella gamba. Mi ha mostrato anche quella. Sa del TPD, Duncan. Come avrebbe potuto sapere del TPD. se non l'avesse trovato nel tuo ufficio? E ora che ci penso, mi ricordo che all'inizio dell'anno parlammo del TPD. Eri molto interessato, volevi sapere tutto. E questa notte non ho trovato il campione nel mio laboratorio: dov'è il mio TPD, Duncan?»
L'aveva incastrato. Non poteva più negare. Ma la cosa che più gli faceva male era ciò che leggeva negli occhi di Oliver: il suo sguardo quasi adorante era scomparso, e al suo posto c'erano rabbia e orrore.
Faccio paura a mio fratello, pensò Duncan. Questo lo feriva, ma era ciò che si meritava. Non temermi, Oliver. Anche se non posso spiegarti del TPD.
Il TPD: era quella la base su cui poggiava tutta la storia di Gina. Poteva attribuire tutto quello che lei aveva detto o fatto a una qualche forma di malattia mentale; ma quel dannato TPD... quello era reale. Oliver lo sapeva meglio di tutti. E aveva anche capito che durante una visita a casa sua, Duncan si era intrufolato di sotto e aveva preso l'ultimo campione di TPD rimasto sulla terra.
«Rispondimi, Duncan. Dov'è, e come l'hai usato?»
Era inutile negare che l'aveva preso. Incurvò le spalle e sospirò. «È di sotto.» Si girò e s'incamminò. «Te lo faccio vedere.»
L'ammissione di colpevolezza di Duncan produsse un immediato cambiamento nell'atteggiamento di suo fratello, che ridiventò il solito premuroso, protettivo Oliver.
«Hai lavorato troppo, Duncan», disse seguendolo nello scantinato. «Te l'ho detto tante volte. Ora hai bisogno di un lungo riposo, e probabilmente... probabilmente dovrai parlarne con qualcuno.»
«Stai dicendo che devo fare della psicoterapia?»
«Be', sì.» Oliver era evidentemente a disagio nel dire al fratello, il brillante medico, che aveva bisogno di farsi vedere da un altro medico.
«Penso che tu abbia ragione. Sono stato molto sotto pressione, ultimamente. Non sono mai riuscito a farmi una ragione della morte di Lisa. Trovarla lì, in quel modo...»
«Lo so, Duncan. Ne hai passate tante.»
Duncan accese la luce. Lo scantinato era arredato ma pieno di polvere; il vecchio proprietario l'aveva adibito a tavernetta, ma difficilmente Duncan ci metteva piede. Condusse Oliver al centro della stanza, poi si fermò e incominciò a guardarsi intorno, fingendosi confuso.
«Ma dove l'ho messo?» Fece un giro per la stanza, poi schioccò le dita. «Ah, sì. Aspettami un attimo.»
Corse al piano di sopra e, una volta in cucina, chiuse dietro di sé la porta a chiave. Sentì Oliver precipitarsi su per le scale, tentare di aprire la porta, poi iniziare a tempestarla di pugni.
«Duncan! Duncan, non farlo! È pazzesco!»
«Mi è rimasta solo un'ultima cosa da fare, Oliver», disse Duncan mentre infilava per precauzione sotto il pomello della porta una delle pesanti sedie della cucina. Per maggiore sicurezza, mise dietro alla sedia anche il tavolo. «Mettiti comodo, quando avrò finito verrò a liberarti.»
Di sotto non c'erano finestre, né un telefono. Oliver era neutralizzato fino a quando Duncan non avesse finito quello che doveva fare.
«Gina non è a casa mia, se è quello che stai pensando. Le ho detto di sparire, di andarsene in un posto tranquillo che nemmeno io conosco. Perciò, se pensi di trovarla e di distruggere le prove, scordatelo. Non la troverai mai!»
«Vedremo», rispose Duncan.
C'era una buona possibilità che Gina facesse un salto a casa sua, prima di sparire. Soprattutto se si credeva ormai al sicuro.
Duncan controllò nella tasca della giacca per essere sicuro che il minitrasduttore fosse sempre al suo posto, poi corse in garage. Sì, Oliver aveva ragione, certo lui aveva intenzione di recuperare l'innesto che Gina si era tolta dalla gamba. Quella era una prova inconfutabile nei suoi confronti, ma non era l'unico innesto coinvolto in quella faccenda. La notte prima Duncan era stato molto previdente: ne aveva messi due nella sua coscia.
Gina si sentiva come se l'appartamento fosse stato pieno d'acqua: ogni movimento le costava uno sforzo incredibile. Si sentiva pesante. Era una prova di volontà resistere alla voglia di infilarsi nel letto, ancora disfatto da quella mattina, e di tirarsi le coperte fin sulla testa.
Come minimo doveva riuscire a cambiarsi i vestiti e la biancheria zuppi di sudore. Una doccia sarebbe stata il massimo, ma non poteva correre un simile rischio. L'avrebbe fatta ad Arlington, e avrebbe detto ai suoi che aveva l'influenza o qualcosa di simile, per spiegare il suo aspetto tutt'altro che florido.
Era sfinita. Doveva fare uno sforzo immane anche semplicemente per mettere un cambio di vestiti nella piccola sacca che usava per andare in palestra. Ma almeno i brividi erano finiti. Ora incominciava a sentire caldo, anche troppo; forse l'antibiotico e l'aspirina stavano incominciando a fare effetto. In effetti si sentiva un po' strana.
D'un tratto ebbe l'impressione che una corrente d'aria fresca le passasse sui piedi, e le parve di sentire un click provenire dalla sala.
Qualcuno aveva aperto la porta di casa?
Oh, no. Non può essere.
Tremante, sentendo i suoi battiti cardiaci farsi sempre più deboli, si avvicinò alla porta della camera da letto e sbirciò nella sala. Era vuota. Ma era anche buia, popolata di lunghe ombre gettate dalla luce che filtrava dalla camera da letto. L'aveva lasciata al buio, in modo che dalla strada sembrasse che lei non era in casa.
Indirizzò lo sguardo verso la bottiglietta con l'innesto. Era ancora al suo posto. A fatica la raggiunse e la prese: sì, era proprio lei, e c'era l'innesto intatto al suo interno.
Improvvisamente sentì vibrare il vetro della bottiglietta nel palmo della mano. Con orrore, vide l'innesto raggrinzirsi e dissolversi in una pozza di liquido. La membrana si era disciolta, e aveva lasciato soltanto il TPD con qualche striatura di sangue essiccato.
Udì un fruscio alle sue spalle: Duncan uscì dall'ombra con il cercapersone in mano. Aveva un'espressione tormentata, sofferente, e grosse lacrime gli rigavano le guance. Gina voleva scappare via, urlare, chiedere aiuto, ma non poté fare nulla. Aveva la gola secca e si sentiva infinitamente debole. Senza perderlo d'occhio, allungò la mano tremante fino a trovare il bordo del divano.
Riuscì a fare soltanto due passi prima di lasciarsi cadere sopra i cuscini.
«Mi dispiace, Gina», disse Duncan. La sua voce era roca, sembrava sul punto di singhiozzare. «Non mi hai lasciato nessuna alternativa. È una cosa che devo fare. Non solo per me, ma per tutti noi.»
Gina aprì la bocca, ma non riuscì a dire nemmeno una parola. Il suo corpo era coperto di sudore, se lo sentiva scorrere in rivoli sulla pelle. Incominciò a ronzarle la testa, sempre più forte.
Duncan fece un passo avanti e prese la bottiglietta dalle sue deboli dita sudate.
«So che non potrai mai perdonarmi, Gina, ma spero che un giorno tu possa capire perché ho dovuto farlo.»
Il ronzio si trasformò in frastuono. Gina tentò di alzarsi dal divano per raggiungere Duncan, per afferrarlo, ma la stanza divenne improvvisamente nera, e il ronzio esplose definitivamente in un ruggito. Si sentì cadere all'indietro...
Ma non toccò mai terra.
36.
VENERDÌ
Duncan si sentiva un miserabile, mentre guidava per le strade di Chevy Chase nel grigiore che precede l'alba. Stava pensando a Gina. In verità, fin dalla sera prima non aveva fatto altro che chiedersi come lei stesse. Aveva chiamato un'ambulanza dal primo telefono che aveva trovato dopo averla lasciata a casa sua. Aveva dato alla centralinista l'indirizzo di Gina, dicendo che nell'appartamento avrebbero trovato una donna priva di conoscenza, poi aveva attaccato e si era allontanato. La polizia avrebbe preso i dati di ogni passante, cercando di scoprire chi avesse fatto la telefonata, e lui non poteva permettersi di essere visto.
Mettere un secondo innesto nel trequarti, dopo averne già inserito uno nella coscia di Gina, era stata una decisione presa all'ultimo momento.
La voce del suo subconscio, più attenta e tenace del suo io cosciente, gli aveva sussurrato che era meglio farsi una specie di assicurazione, per quanto riguardava Gina. Ed erano stati soldi spesi bene: Gina si era tagliata la gamba e aveva estratto l'innesto.
Ma ne aveva estratto solo uno. La sera precedente Duncan li aveva dissolti entrambi, uno nella bottiglietta e l'altro ancora nella coscia di Gina. E così l'unica prova contro di lui se n'era andata, insieme a una mente brillante. Ci sarebbero voluti degli anni prima che l'effetto del TPD svanisse, e in ogni caso sarebbe stato quasi impossibile per Gina ottenere nuovamente l'autorizzazione a esercitare la professione, una volta guarita. I lunghi anni di studio, le sue speranze di carriera... tutto gettato al vento.
Duncan aveva pianto come un bambino mentre tornava a casa, poi era entrato alla chetichella per non dover affrontare Oliver. Suo fratello aveva tutte le comodità nel seminterrato: il locale era riscaldato e dotato di bagno, oltre che di un frigorifero pieno di succhi di frutta e di bibite. Aveva tutto, tranne un telefono.
Molto probabilmente Oliver ha passato una notte migliore della mia, pensò Duncan.
Lui era rimasto tutta la notte sveglio sul divano. Ogni tanto sentiva Oliver gridare il suo nome, e non appena chiudeva gli occhi si rivedeva davanti l'espressione terrorizzata sul viso di Gina prima che perdesse i sensi.
Per un po' aveva anche pensato di mandare a monte tutto. Avrebbe potuto chiamare quell'agente dei Servizi Segreti che gli aveva lasciato il suo biglietto da visita - si chiamava Decker o qualcosa del genere - e rivelargli che l'intervento non si faceva più; oppure dire al dottor VanDuyne che il Presidente poteva anche andare all'inferno, e trovarsi un altro chirurgo che gli mettesse a posto quelle sue dannate palpebre.
Ma al punto in cui era, non poteva permettersi un lusso simile, non dopo quello che aveva fatto a Gina. Le aveva fatto qualcosa di terribile, ma l'aveva fatto per un motivo. Non andare fino in fondo voleva dire averla fatta soffrire per niente. E questo sarebbe stato mostruoso.
Ecco perché si stava dirigendo verso la sua clinica alle quattro e mezza del mattino, mezz'ora prima di quanto aveva preventivato. Oliver era ancora chiuso a chiave nello scantinato. Non appena il Presidente se ne fosse andato a Camp David, portandosi dietro un innesto nella coscia, Duncan sarebbe andato a liberarlo.
E dopo? Che cosa sarebbe successo dopo?
Avrebbe tentato di convincere Oliver a non fare pazzie. Gli avrebbe restituito il TPD rimasto, giurandogli che non aveva fatto nulla al Presidente. Avrebbe ammesso di essersi comportato in modo aberrante per un certo periodo di tempo, ma ora stava molto meglio, ed era disposto a seguire una terapia. Infine, avrebbe finto di non sapere nulla delle condizioni di Gina, e giurato di nuovo di essere andato a cercarla la sera precedente, ma di non essere riuscito a trovarla.
Oliver avrebbe potuto sospettare che mentisse, ma non ne avrebbe avuto mai la certezza: dopo tutto, l'aveva visto con i suoi occhi che l'innesto non si trovava più nella gamba di Gina. Se fosse riuscito a convincerlo che da ora in avanti avrebbe rigato dritto, forse avrebbero potuto mettere una pietra sopra a tutta quella faccenda. Almeno questo era quello che Duncan sperava.
In fondo, si disse, se la cosa diventava di pubblico dominio lo scandalo avrebbe investito anche Oliver, e con lui i suoi geniali innesti. Sulla brillante invenzione di suo fratello sarebbe pesato per sempre come un marchio d'infamia il ricordo dell'uso criminale che lui ne aveva fatto: con questi precedenti, probabilmente la FDA non avrebbe concesso la sua approvazione al brevetto.
Oliver se ne sarebbe fatta una ragione, concluse Duncan. Quello che danneggia me, danneggia anche la sua invenzione, e Oliver sa che il bene che possono fare i suoi innesti è molto più grande del male che ho arrecato io.
Entrò nell'edificio dall'ingresso riservato al personale. Si diresse al pannello dell'allarme per disabilitarlo, ma lo trovò già disinserito. Imprecò: Barbara si era di nuovo dimenticata di inserire l'allarme prima di uscire. Se non fosse stata una così brava segretaria...
Le avrebbe parlato la settimana successiva; adesso aveva altre cose di cui preoccuparsi. Mancava ancora mezz'ora all'arrivo della prima squadra dei Servizi Segreti. Aveva tutto il tempo per riempire un innesto con il TPD.
Accese le luci dell'atrio e i faretti esterni, poi si diresse al suo ufficio. Aprì la porta, accese la luce e rimase impietrito: l'ufficio era un macello, libri, giornali e documenti erano disseminati ovunque sul pavimento. Qualcuno si era introdotto nella stanza e aveva buttato tutto all'aria. Ma perché? Che cosa cercava?
Corse alla scrivania. Gemette quando vide il cassetto che aveva chiuso a chiave: sembrava che qualcuno l'avesse preso a martellate per aprirlo. La fiala di TPD e il trequarti erano spariti.
No!
Il cuore iniziò a battergli all'impazzata.
Tornò di corsa nell'atrio e si guardò affannosamente intorno. Qualcuno aveva trovato il TPD e l'aveva rubato, ma chi? Oliver era rinchiuso nel seminterrato di casa sua, e Gina si trovava in qualche ospedale della città.
Chi altro sapeva?
In quel momento Duncan sentì un leggero rumore, come se una sedia venisse spostata, provenire dal fondo dell'atrio. Si girò di scatto: la porta delle scale che scendevano al piano inferiore era aperta.
Chi poteva esserci di sotto nell'archivio, o...
Il laboratorio di Oliver!
Il più silenziosamente possibile, Duncan attraversò l'atrio e scese le scale. Vide la luce irrompere attraverso la porta aperta del laboratorio; dall'interno provenivano dei rumori. Oliver doveva essere riuscito chissà come a uscire dallo scantinato, aveva saputo da Gina dov'era nascosto il TPD e adesso se ne stava liberando.
Abbandonata ogni cautela, Duncan corse verso la porta.
«Oli...!» La parola gli si strozzò in gola, lasciandolo senza respiro.
Una donna pallida, con indosso una tuta e con i capelli scuri scarmigliati era in piedi vicino al bancone, con la fiala di TPD in mano. Alzò lo sguardo: quegli occhi scuri avrebbero potuto fulminarlo.
Finalmente Duncan ritrovò la voce. «Gina!»
Gina alzò la mano con la fiala e fece per gettargliela contro, ma Duncan con un movimento repentino le afferrò il braccio prima che potesse completare il movimento. Gina si mise a urlare e a graffiargli la faccia con la mano rimasta libera, mentre lui tentava di strapparle la fiala dalle dita. Sembrava una tigre inferocita, ma lui riuscì a tenerla a bada, e alla fine le strappò la fiala. Allora lei iniziò ad attaccarlo con entrambe le mani, urlando frasi sconnesse a denti stretti.
Era una vera furia. Era questo l'effetto che aveva il TPD su di lei?
D'un tratto la donna riuscì a divincolarsi e si lanciò in direzione della porta. Duncan allora le afferrò un braccio e la scagliò con violenza dall'altra parte del bancone, poi chiuse la porta e ci si appoggiò contro con la schiena.
Rimasero per un attimo a fissarsi, ansimanti.
«Bastardo!» gridò Gina, con le lacrime agli occhi. «Brutto figlio di puttana! Come hai potuto farmi questo?»
Poi appoggiò i gomiti sul bancone e, presosi il viso tra le mani, cominciò a singhiozzare.
Duncan era ammutolito.
In quel momento Gina sembrava normale. Sconvolta, sì, ma del tutto razionale. Ma allora il TPD, l'innesto... Forse il trasduttore non era riuscito a dissolverlo?
Doveva essere così. Poca potenza, interferenze o chissà che altro, per una ragione qualsiasi gli ultrasuoni non avevano funzionato.
Mio Dio, e adesso cosa doveva fare?
Una cosa era certa, aveva bisogno di tempo per pensare. Si voltò verso la porta e tirò il chiavistello. Se non altro l'avrebbe rallentata, se avesse tentato di...
I suoi pensieri furono interrotti da una fitta lancinante, come se una fredda lama gli fosse penetrata nella parte posteriore della coscia. Urlò di dolore, si toccò la gamba e si girò.
Gina gli era proprio di fronte, con il trequarti stretto nella mano come se brandisse un pugnale.
Gli si gelò il sangue. Glielo strappò dalle mani.
«No, non può essere! Gina, non puoi averlo fatto!»
La donna annuì lentamente, con gli occhi spiritati, e a poco a poco sul volto le si disegnò un sorriso.
Duncan vide sul bancone dietro di lei un vassoio con tre innesti e una siringa. Si toccò nuovamente la parte posteriore della coscia e poi si guardò le dita: sangue.
Il dolore era forte, ma in quel momento ciò che sentiva esplodergli dentro era la rabbia. Fece per avvicinarsi a Gina, ma lei alzò l'altra mano: aveva le dita serrate attorno al puntale dell'apparecchio a ultrasuoni che Oliver usava per i suoi esperimenti.
Duncan fece un passo indietro e si appoggiò alla porta. Si sentiva perduto.
«No, Gina!» Cercò di gridare, ma dalla bocca gli usciva solo un flebile bisbiglio. «Per favore... No!»
«E perché no?» rispose Gina. Aveva ancora quel sorriso folle stampato sul volto. E i suoi occhi... C'era qualcosa di selvaggio nei suoi occhi che lo atterriva. Era arrivata sull'orlo del baratro. Una sola parola sbagliata, un solo movimento sbagliato, e avrebbe perso del tutto il controllo.
«Perché no?» ripeté. «Tu me lo hai fatto.»
«No, Gina. Era l'ultima cosa che volevo fare. Non avevo scelta, io...»
«Risparmiami le tue bugie!» lo interruppe lei puntandogli minacciosamente contro il trasduttore. «Ieri sera sono svenuta perché ero febbricitante, terrorizzata e indebolita, ma tu devi aver pensato che fosse il TPD che stava facendo effetto sul mio sistema nervoso. Hai cercato di friggermi il cervello, Duncan, e, maledizione, ci sei andato davvero vicino. Se la punta del mio mignolo non avesse sfiorato per caso il secondo innesto, mentre stavo tirando fuori il primo, a quest'ora sarei già ben bene impacchettata in una camicia di forza. Invece, purtroppo per te, mi sono ripresa e sono uscita di casa poco prima che arrivasse l'ambulanza.»
«Questa è la prova che non intendevo farti del male. Io ho chiamato quell'ambulanza.»
«Sì, certo. Dopo avermi dato un bel colpetto con i tuoi ultrasuoni.»
Gina si avvicinò e Duncan si scostò sulla destra. Non osava tentare di afferrare il puntale, Gina aveva il pollice appoggiato sopra l'interruttore. Una piccola pressione e l'innesto si sarebbe dissolto nella gamba, dopodiché anche la sua mente avrebbe rapidamente fatto la stessa fine. Doveva tenerla impegnata, farla parlare.
«No, non è così, Gina», disse, continuando impercettibilmente a muoversi. «Oliver mi aveva detto che avevi estratto entrambi gli innesti. Ero venuto per...»
«Oliver non lo sapeva!» urlò Gina. «Lui ha visto solo quello che c'era nella bottiglietta, il secondo. Il primo si era rotto cadendo nella vasca, ed è finito nello scarico.»
Duncan continuava a spostarsi lentamente, centimetro dopo centimetro. Cercava di mettere il bancone fra di loro, ma lei seguiva ogni suo movimento puntandogli sempre contro il trasduttore.
«Gina, ascolta...»
«Come hai potuto farmi una cosa del genere, Duncan? Come hai potuto tentare di distruggermi in questo modo? Io mi fidavo di te, Duncan!»
Il cuore gli martellò nel petto quando vide il furore nei suoi occhi. Si guardò intorno disperatamente alla ricerca di un'arma o di una via di fuga, ma era intrappolato.
Non poteva più indietreggiare, doveva tentare di strapparle di mano il puntale.
Ma poi vide la sua salvezza, lì, a meno di un metro di distanza. Distolse lo sguardo. Non doveva assolutamente farle capire quello che aveva visto. Se solo fosse riuscito a raggiungerlo prima che lei...
«Anch'io mi fidavo di te, Gina», disse cercando di prendere tempo. «Ti ho dato un lavoro, ti ho dato le chiavi della mia clinica, e tu cosa hai fatto? Hai scassinato il cassetto della mia scrivania e hai violato la mia privacy.»
Per un attimo, la rabbia sembrò assopirsi nello sguardo di Gina, ma solo per un attimo.
«Come fai a saperlo?»
C'era quasi, l'aveva quasi raggiunto. Doveva solo allungare una mano e...
«Hai lasciato un pezzo di ferro nella serratura.» Alzò la mano destra con il pollice e l'indice distanziati di pochi millimetri. «Proprio un piccolo pezzettino...»
Fece uno scatto, con la mano afferrò il filo elettrico dell'apparecchio a ultrasuoni e con uno strattone staccò la presa dal muro, lasciando Gina con in mano il puntale ormai inerte.
Duncan si lasciò cadere sul bancone. Mio Dio, c'era mancato poco!
Le tese la mano. «Dammelo, Gina. Non ti serve più a niente ormai.»
«Non contarci!»
Gina indietreggiò e glielo scagliò in faccia. Duncan cercò di scansare il colpo abbassandosi, ma non riuscì a evitarlo completamente. Il puntale del trasduttore lo colpì violentemente al capo. Nel tempo che gli ci volle per riprendersi, Gina aveva tolto il chiavistello e aperto la porta, e prima che lui fosse riuscito a fermarla, era già uscita.
Incurante del dolore alla gamba, Duncan si gettò all'inseguimento, zoppicando su per le scale.
Gina si sentiva mancare il fiato e i suoi passi si facevano sempre più pesanti. Aveva preso gli altri antibiotici che Oliver le aveva dato, ma era ancora molto debole. Non sarebbe riuscita a tenere a distanza Duncan ancora per molto.
Raggiunse ansimando il piano terra e attraversò di corsa l'atrio... finendo dritta dritta fra le braccia di tre uomini in giacca e cravatta.
«Cosa diavolo sta succedendo qui?» chiese quello al centro, alto e di carnagione scura, mentre l'uomo alla sua destra la teneva ferma per un braccio. Aveva le dita che sembravano d'acciaio. Era come se l'avesse ammanettata.
«Agente Decker!» Era la voce di Duncan, alle sue spalle. «Grazie a Dio siete arrivati! Ho trovato qui questa ragazza questa mattina. A quanto pare si è introdotta nell'edificio durante la notte.» Sollevò il trequarti. «Mi ha appena colpito con questo.»
Gina si girò e vide Duncan ansimante nel vano della porta che conduceva di sotto.
«Gli ho solo fatto quello che lui oggi voleva fare al Presidente.»
«Ehi, ehi», disse il più alto, quello che Duncan aveva chiamato agente Decker. «Aspetti un attimo, signora...»
«È una squilibrata», disse Duncan avvicinandosi. «Ha perso ogni contatto con la realtà.»
«Non è vero!» urlò Gina. «Io lavoro qui, sono un medico. E lui oggi ha intenzione di uccidere il Presidente!»
Non era proprio la verità, ma doveva riuscire a ottenere la loro attenzione. E adesso ce l'aveva.
«Sì è vero, lavorava qui, agente Decker», disse Duncan in fretta. «Ma ultimamente abbiamo notato che si comportava in un modo strano e stavamo cercando di darle un aiuto dal punto di vista psichiatrico. Sfortunatamente, però, è crollata prima che riuscissimo a fare qualcosa.»
«Come si chiama, signora?» chiese Decker.
«Sono la dottoressa Gina Panzella. Sono un medico internista, sono perfettamente sana di mente e nel pieno delle mie facoiltà.» Si lanciò in un resoconto delle disavventure che erano capitate ai membri della Commissione per le Direttive, che guarda caso erano tutti pazienti di Lathram, ma Duncan l'interruppe dopo poche frasi.
«Agente Decker, fino a quando dobbiamo stare qui a sentire questi vaneggiamenti? Faccia un controllo all'FBI: non più di una settimana fa li ha convinti a dare la caccia a un fantomatico innesto tossico che avrei iniettato nel senatore Marsden.»
«Non dategli ascolto», disse Gina. «Quella volta è stato costretto a fare marcia indietro all'ultimo momento.»
Duncan la fissò e scosse la testa mestamente. Dio, il bastardo era anche un buon attore. Sembrava realmente addolorato per le condizioni mentali della sua giovane collega. «Da un attento esame al senatore», continuò, «inclusa una risonanza magnetica, non è risultato assolutamente niente, e alla fine hanno fatto la figura degli sciocchi. Può controllare.»
«Non dubiti», rispose Decker. «Controlleremo. Controlleremo tutto.»
«Bene. Il nome dell'agente che dirigeva questa caccia ai fantasmi è Canney. Sono sicuro che si è pentito di aver dato ascolto alla dottoressa Panzella.»
«Canney?» ripeté Decker. «Lo chiamerò.»
«Insomma!» insistette Gina. «Lei mi deve ascoltare!»
«Ascolteremo tutti, non si preoccupi», rispose Decker. Si rivolse all'uomo che la tratteneva: «Tu e Briggs portatela giù e prendete una sua dichiarazione, intanto io cerco di mettermi in contatto con Mallard per vedere se possiamo sospendere la faccenda. Non mi piace, non mi piace per niente.»
«Grazie a Dio!» esclamò Gina mentre l'accompagnavano verso la parte posteriore dell'edificio. «Non importa se mi credete o no, ma non lasciate che il Presidente venga qui, oggi.»
Decker la guardò attentamente mentre le apriva la porta che dava sul parcheggio. «Non sempre queste decisioni spettano a noi, signora. E così, lei conosce Gerry Canney, vero?»
Sapeva il nome di Gerry! «Sì, fin dai tempi del liceo. Lo conosce anche lei?»
«Ci siamo incontrati qualche volta. È lei che gli ha detto dell'operazione al Presidente?»
«Sì, sono stata io! E lei è quello che Gerry ha chiamato, vero?»
Decker non rispose. Stava fissando la macchina che era entrata in quel momento nel parcheggio.
Era stata una lunga notte, una brutta notte. Gerry non era più riuscito a dormire dalle sei di mattina del giorno prima. Era stanco, aveva lo stomaco in fiamme ed era arrabbiato.
La sera prima, dopo aver lasciato il Tremont Hotel, non era riuscito a trovare nessuna traccia di Gina. L'unico intervento che aveva seguito era stata una chiamata per un'ambulanza dal suo appartamento, che poi era risultata un falso allarme. In casa non c'era nessuno, ma stranamente avevano trovato la porta spalancata.
C'era qualcosa di strano e di malaugurante in quella chiamata. Qualcosa che non riusciva ad afferrare completamente, e che l'aveva tormentato tenendolo sveglio per tutta la notte.
Non poteva fermarsi, né poteva abbandonare il caso. Aveva chiamato la signora Snedecker e le aveva chiesto se Martha poteva restare a dormire da lei. Alla piccola non dispiaceva, anzi, era contenta quando poteva dormire fuori casa. Qualche volta questo lo preoccupava. Aveva parlato con lei al telefono dalla sua auto, poi aveva continuato a girare per le strade ripassando periodicamente dal suo ufficio.
Aveva parlato anche con i genitori di Gina, ma loro dichiararono di non averla sentita. Sperava che gli avessero detto la verità, non voleva aver pattugliato tutta la notte il dannato nord-est per niente.
Era appena stato per la seconda volta all'appartamento di Gina, e l'aveva trovato ancora vuoto. E ora, per la terza volta in quella notte - o meglio, in quella mattina, dal momento che il sole stava ormai minacciando di sorgere -, si stava recando a ispezionare dall'esterno la clinica di Lathram.
Entrò nel parcheggio posteriore dell'edificio e vide che c'erano tre macchine, due delle quali, a giudicare dalla targa, erano del governo federale. Si fermò, e mentre scendeva dalla macchina vide Gina uscire dall'edificio scortata da tre uomini.
Si appoggiò alla macchina, con le ginocchia che gli si piegavano per il sollievo. Grazie a Dio! Almeno era viva, anche se non sembrava molto in forma. I tre uomini che erano con lei dovevano essere dei Servizi Segreti: uno di loro era Bob Decker.
I Servizi Segreti... L'operazione al Presidente! Merda! Se Gina aveva detto la verità sull'operazione, poteva aver avuto ragione anche sul resto?
Sbatté la portiera.
Sul viso di Gina comparve un largo sorriso. «Gerry!»
«Guarda, guarda. Parli del diavolo...» disse Decker. «Stavamo proprio...»
«Figlio di puttana!» gli gridò Gerry mentre si avvicinava a grandi passi. «Dannato figlio di puttana!»
Gli altri due agenti che stavano con Decker si bloccarono e si portarono la mano sotto la giacca.
«È tutto okay», disse Decker, «lo conosco. È un federale.»
«Gina, stai bene?» chiese Gerry.
Lei sorrise. «Adesso sì.»
Sembrava così indifesa e fragile in mezzo a quegli uomini. Avrebbe voluto prenderla tra le braccia e dirle che andava tutto bene, ma non era né il momento, né il luogo, né la compagnia giusta.
Gerry si girò verso Decker. «Mi hai detto che non sapevi nulla di un intervento chirurgico sul Presidente, eppure sei qui, alle cinque del mattino, alla clinica di Lathram. Vuoi darmi una spiegazione?»
Decker scrollò le spalle. «Se lui vuole che nessuno ne parli, nessuno ne parla.»
«Avrebbe potuto andare a finir male, lo sai?»
«Intendi dire nel caso che non fossimo riusciti a fermare questa signorina?»
«No, intendo dire se lei non fosse riuscita ad arrivare fin qui.»
«Gerry!» esclamò Gina spalancando gli occhi. «Ma allora mi credi!»
«Non so ancora esattamente a cosa credere, ma so che ci sono troppe strane coincidenze che riguardano Lathram per potergli permettere di avvicinarsi a meno di tre chilometri dal Presidente.»
A Decker era passata la voglia di scherzare. «Il dottore ci ha detto che la settimana scorsa questa signora ha mandato te e il Bureau in giro per niente.»
«Sì, è vero. Ma non è detto che dietro non ci fosse qualcuno che ci ha organizzato questo bel giro a vuoto.»
«E in più il dottore dice che lei lo ha pugnalato.»
«Con un trequarti», aggiunse Gina. «Lo stesso che lui ha usato contro di me. E che voleva usare sul Presidente.»
Gerry trasalì per il modo in cui suonava quell'affermazione, così fuori dal mondo. Chi mai le avrebbe creduto?
E questo andava a tutto vantaggio di Lathram.
«I miei agenti l'accompagneranno in ufficio, dove si faranno rilasciare una deposizione e...»
«No, aspettate!» gridò Gina. «Possiamo risolvere tutto adesso. So come fare.»
«Andiamo, signora», disse l'agente dai capelli rossi che la teneva per il braccio, sospingendola verso la macchina.
Gerry gli sbarrò la strada.
«Diamole un minuto. Forse, se l'avessi ascoltata, adesso noi cinque potremmo essere a casa nel nostro letto, invece di stare qui a quest'ora impossibile.»
Lo sguardo riconoscente di Gina lo ripagò di tutte le ore insonni che aveva passato.
«E va bene», disse Decker. «Cinque minuti, poi la portiamo via.»
Duncan non riusciva a immaginare come le cose potessero andare peggio di così, ma in ogni caso pensò che era meglio cautelarsi.
Mentre osservava gli agenti dei Servizi Segreti accompagnare Gina verso il parcheggio, decise di abbandonare ogni piano futuro riguardante l'uso del TPD. Per prima cosa, doveva disfarsene.
Estrasse dalla tasca la fiala e corse di sotto nel laboratorio di Oliver. La mise nel lavello, la coprì con un tovagliolo di carta e la fece a pezzetti minuscoli. Fece scorrere l'acqua per un po', poi raccolse i frammenti di vetro rimasti nel lavello con il tovagliolo di carta bagnato. Pulì accuratamente con dell'acetone il trequarti che Gina aveva usato, per distruggere ogni traccia di TPD e infine lo gettò nel cestino delle siringhe usate.
Lasciò scorrere l'acqua e salì di sopra nel bagno degli uomini, dove gettò i residui della fiala, la sua etichetta e il tovagliolo di carta nello scarico. A farne sparire ogni traccia ci avrebbe pensato il sistema fognario di Chevy Chase.
E questa era fatta. TPD? avrebbe detto cadendo dalle nuvole. Non so di che stiate parlando. Accomodatevi, cercate pure.
L'ultimo campione esistente del composto era nascosto nella sua coscia.
Questo era il pensiero più raccapricciante: immaginare che cosa gli sarebbe successo se l'innesto si fosse rotto prima che lui avesse l'opportunità di estrarlo. La sola idea lo faceva sudare freddo. Avrebbe dovuto stare molto attento per le prossime ore; poi nel pomeriggio, quando le acque si fossero calmate, sarebbe andato da uno dei suoi numerosi amici chirurghi per farselo estrarre.
Si sciacquò le mani. Mentre se le asciugava si guardò fisso nello specchio. È finita, pensò. Forse sono riuscito a fare qualcosa per distruggere la Commissione per le Direttive, o forse no. Ma almeno Lisa è vendicata.
Provava qualche rimpianto? Solo per aver agito contro Gina. E per essere arrivato a un passo dall'occasione della sua vita, poter colpire la creatura mostruosa che si trova alla Casa Bianca.
Sospirò. Un uomo deve sapere quando fermarsi, e quel momento era arrivato.
Si asciugò le mani e ritornò nell'atrio.
«Dottor Lathram», si sentì chiamare. Era la voce dell'agente Decker.
Si girò e vide un gruppo di persone che si avvicinavano: Gina, i tre agenti dei Servizi Segreti, e un quarto uomo. Canney, l'uomo dell'FBI. Cosa era venuto a fare?
«Possiamo andare un momento di sotto?» chiese Decker. «Stiamo tentando di chiarire alcune cose, e mi chiedevo se lei potesse aiutarci.»
A Duncan non piacque il tono della sua voce, e non gli piaceva nemmeno lo sguardo da predatore che c'era negli occhi di Gina. Per un istante prese in considerazione l'opportunità di chiamare un avvocato, ma decise di non farlo. Avrebbe destato dei sospetti. Era perfettamente in grado di tenere a bada quella gente da solo.
Gina rimase ad ascoltare l'agente Decker. Era un tipo freddo, sembrava quasi imperturbabile. Ma i suoi occhi azzurri non smettevano mai di guardarsi intorno. Notava ogni cosa.
«Dunque, dottor Lathram, lei prima ha affermato che la dottoressa Panzella l'ha pugnalata. Vuole sporgere denuncia per l'aggressione subita?»
Gina notò che Duncan sembrava sollevato a quella domanda.
«No, assolutamente no. È fuori di sé. Non voglio mandarla in prigione, desidero soltanto che riceva le cure appropriate.»
Gina si sforzò di non urlare. Come stabilito, l'agente dai capelli rossi, che si chiamava Reilley, la fece accomodare su una panca nella parte più interna del laboratorio. Gerry si sistemò in modo che Duncan non potesse vederla bene.
Caro Gerry! Non era mai stata così felice di vedere qualcuno in vita sua come quando lo aveva visto arrivare quella mattina al parcheggio. Non l'aveva abbandonata, era stato in piedi tutta la notte a cercarla. Avrebbe voluto abbracciarlo.
«È molto generoso da parte sua», stava dicendo Decker, «ma noi dobbiamo assicurarci che lei stia bene. La dottoressa Panzella afferma di averle immesso una specie di capsula velenosa sotto la pelle, quando l'ha colpita.»
«Ridicolo», rispose Duncan. «È una delle sue manie. Immagina che io abbia fatto una cosa del genere ad alcune persone, inclusa lei stessa, e così adesso pensa di averlo fatto a me. Signori, credetemi, ha bisogno di cure. E prima riuscirete a fargliele avere, meglio sarà.»
È così maledettamente loquace, pensò Gina mentre in silenzio reinseriva la spina dell'apparecchio a ultrasuoni nella presa di corrente. Premette l'interruttore su ON e si accese una lucetta rossa.
«Fatto», bisbigliò.
Gerry si girò, le fece l'occhiolino e prese il puntale dell'apparecchio. Poi si voltò verso Duncan con il puntale in mano, in modo che lo vedesse bene.
«Se ha detto la verità, dottor Lathram, non dovrebbe dispiacerle se provo questo sulla sua gamba.»
Gina vide Duncan strabuzzare gli occhi e gettare immediatamente lo sguardo sulla spia che indicava l'avvenuta accensione della macchina. Si girò e cercò di scappare, ma Briggs era sulla porta e lo fermò.
«Tenga quell'affare lontano da me!» urlò. «Per l'amor di Dio, lo spenga!»
Decker guardò Gina e annuì.
Sì, finalmente ce l'aveva fatta!
Poteva aggiungere un altro nome alla lista di chi le credeva. I lineamenti di Decker si fecero più duri. Si girò verso Duncan, ma non poté prendere la parola: adesso era Gerry che stava conducendo l'indagine.
«Si sieda, dottor Lathram», disse Gerry, indicando con il puntale una sedia vicino al bancone.
«Per favore», disse Duncan. «Stia attento con...»
«Si sieda!»
Duncan obbedì.
Gina era sbalordita di come Gerry aveva preso il controllo della situazione.
«C'è un innesto pieno di una sostanza chiamata TPD nella sua gamba?» domandò.
«No.»
Gerry esaminò il puntale. «Allora credo che non ci sia alcun pericolo se accendo questo aggeggio e...»
«E va bene!» urlò Duncan, sconvolto. «Sì, sì, c'è! C'è un innesto nella mia gamba!» Stava tremando. «Per favore allontani quel coso!»
«Solo altre due domande: ha inserito un innesto simile nella gamba del senatore Vincent, dopo averlo sottoposto a un intervento di chirurgia plastica?»
«Non intendo rispondere a questa domanda.»
«Capisco», disse Gerry. Si girò verso Gina, e indicando il pulsante d'accensione sul puntale le chiese: «È questo che lo fa funzionare?»
«Sì!» gridò Duncan. «Sì, l'ho fatto!»
L'ha detto, grazie a Dio!
«E che mi dice di Lane, Allard e Schulz?»
«Sì, sì, sì!» Duncan si era alzato e stava indietreggiando. «È soddisfatto? E adesso allontani quel coso.»
«Ho sentito abbastanza», disse Decker.
«Anch'io», confermò Gerry. Posò il puntale vicino alla macchina per gli ultrasuoni.
È finita, pensò Gina appoggiandosi al bancone. Finalmente è finita.
Decker si rivolse all'agente vicino a Gina e indicò Duncan.
«Reilley, resta qui a tenere compagnia al dottor Lathram, mentre io vado di sopra a fare qualche telefonata.»
Gerry allungò la mano sul bancone verso Gina, e lei l'afferrò.
«Come va?» le chiese.
«Molto meglio, adesso che sei qui.»
Lui la guardò fissa negli occhi. «Dimmi una cosa: al Tremont... Il sangue nel bagno... Hai...?»
Gina annuì e Gerry chiuse gli occhi per un momento.
«Sei incredibile. Mi dispiace di aver dubitato di te.»
Quelle parole erano musica per lei.
Gli prese la mano tra le sue. «Siamo stati manovrati da un maestro, Gerry. L'importante è che tu non mi abbia abbandonata. Questo è quello che conta.»
Gerry gettò uno sguardo alle sue spalle, verso Duncan. «Non ha l'aria di uno che deve rendere conto di due omicidi di secondo grado e di una moltitudine di reati federali.»
Gina capiva cosa intendeva dire: seduto sulla sedia, Duncan sembrava freddo e calmo ora che il trasduttore di ultrasuoni non lo minacciava più.
Lei si alzò e girò intorno al bancone.
«Dove stai andando?» le chiese Gerry.
«Voglio dire due parole al mio vecchio capo.» Al mio vecchio idolo.
Doveva stare attenta. Voleva parlargli, ma doveva mettere da parte i suoi sentimenti. Il solo guardarlo, in quel momento, le faceva venire voglia di piangere.
«Almeno hai capito che cosa sei diventato, Duncan?»
Lui alzò gli occhi, aveva uno sguardo gentile. «Qualcosa mi dice che me lo dirai tu.»
«Sin da quando sono arrivata a Washington non hai fatto altro che parlarmi dell'etica, dell'onestà e della probità, e di come nessuno nel governo seguisse quei princìpi morali. E purtroppo non ti sbagliavi. Solo che io pensavo che tu ne parlassi dall'alto del pulpito, e invece non era così. Mentre facevi quei discorsi, profanavi il giuramento di Ippocrate. Lo so, hai ragione quando dici che quegli uomini ti hanno ferito, e che sono dei truffatori, dei corrotti, sanguisughe che succhiano la fiducia della gente, ma questo non ha importanza. Quello che importa è che si erano affidati a te perché li rendessi migliori di com'erano. Il rapporto di fiducia tra paziente e medico è sacro - primum non nocere, ricordi? - e tu l'hai profanato.»
Decker era rientrato nella stanza, ma non la interruppe. Bene, perché non aveva ancora finito.
«So bene cos'eri, Duncan, chi eri, e io ti ammiravo più di qualunque altra persona al mondo. Ma sei diventato esattamente come quelli che detesti: il fine giustifica i mezzi, non importa quali. Guarda quello che hai cercato di farmi!» In quel momento Gina comprese che si stava arrabbiando. Doveva concludere il suo discorso prima di esplodere. «Tu sei diventato il nemico, Duncan. E adesso pagherai per quello che hai fatto.»
«Forse sì», rispose Duncan dolcemente. «O forse no.»
«Non prenderti in giro da solo», gli disse lei, mentre sentiva la rabbia crescerle dentro. «Hai appena confessato in una stanza piena di gente.»
Lui sorrise. «Qualunque dichiarazione io abbia fatto, mi è stata estorta con le minacce.» Guardò i quattro agenti governativi. «Chiedi a questi gentiluomini se pensano che anche una sola parola di ciò che ho detto possa essere usata in tribunale.»
Gina si guardò intorno. Nessuno parlava, ma gli occhi di Gerry non le lasciarono alcun dubbio.
Qualcosa dentro di lei scattò. «Vuoi dire che sarà libero?» urlò.
Gerry fece per dire qualcosa, ma Gina non lo sentiva. Tutto il dolore, l'angoscia, il terrore, i dubbi, tutto il male che le aveva fatto non contavano nulla: Duncan stava per farla franca!
Si girò, afferrò il puntale dell'apparecchio a ultrasuoni, schiacciò il pulsante d'accensione, e lo puntò contro la gamba di Duncan.
«Liberati di questo, adesso!»
Duncan urlò «No!» e si afferrò la coscia.
Improvvisamente nel laboratorio si scatenò il pandemonio. Reilley l'allontanò da Duncan e Gerry le strappò il puntale dalle mani, mentre Decker urlava: «Cristo, Gerry! Portala fuori di qui!»
Gerry l'afferrò da dietro e dolcemente, ma con fermezza, la spinse verso la porta. Passarono accanto a Duncan. Era piegato su se stesso e si stringeva la coscia con le mani. «Oh no, oh no, oh no, per favore, mio Dio no, no, no!» piagnucolava.
Uscirono nell'angusto corridoio. Gerry chiuse la porta e la fece girare per guardarla in faccia.
«Dio mio, Gina! Non posso credere che tu abbia fatto una cosa del genere.»
«Voglio che si senta spaventato come lo sono stata io. Voglio che sappia cosa si prova quando improvvisamente si viene terrorizzati.»
«Sì, posso capirti. So quello che ha cercato di farti, ma dopo tutto quello che hai appena detto, non avrei mai pensato che...» Si interruppe e la fissò. «Perché sorridi?»
Amava il suo modo di fare così garbato.
«Forse mi sono dimenticata di dirti che l'innesto di Duncan era vuoto.»
«Vuoto?»
Gina annuì. «Esatto. È entrato prima che avessi la possibilità di riempirlo, così l'ho colpito con un innesto vuoto.»
Vide l'espressione di Gerry mutare, gli angoli della sua bocca sollevarsi. Un secondo più tardi stava scuotendo la testa divertito.
«È geniale. Gli hai dato un assaggio della sua stessa medicina, no, meglio ancora, gli hai fatto credere che la stesse assaggiando!» La prese tra le braccia e l'attirò a sé. «Mi hai fatto preoccupare. Perché non mi hai chiamato?»
«Pensavo che non mi avresti creduto.» Improvvisamente si sentì vacillare sulle gambe. «Ci sediamo?»
Gerry l'accompagnò fino alla sala d'aspetto e sistemò due sedie una vicina all'altra. Si sedettero. Le mise un braccio intorno alle spalle, come a proteggerla.
«Non accadrà più, Gina. Ti crederò sempre. Lo giuro.»
«Bene. Ma spero che non mi capiti più una situazione del genere.»
«Allora siamo in due. Anzi in tre, contando anche Martha. Le sei mancata.» Le si fece più vicino. «Penso che quello che è successo stamattina sistemerà le cose con il Bureau. E questo significa probabilmente un avanzamento di grado. Pensavo di portare via Martha da questa città. E tu, che programmi hai? Hai ancora voglia di lavorare in Campidoglio?»
Gina scosse la testa. «Ho avuto quell'incarico grazie a questo posto. Penso che mi cercherò una graziosa cittadina dove aprire uno studio.»
«Fantastico.» La guardò fisso negli occhi. «Forse potresti sceglierne una con nelle vicinanze un ufficio dell'FBI. Che ne pensi?»
«L'idea non mi dispiace.»
In quel momento la porta del laboratorio si aprì. Briggs uscì e si diresse verso le scale, lanciando a Gina un'occhiata circospetta. Mentre la porta si richiudeva, si udì la voce di Duncan.
«Dovete portarmi in ospedale!» stava gridando. «Subito! Non c'è un minuto da perdere! Questa è un'emergenza!»
La porta si chiuse.
«Quando glielo diciamo?» chiese Gerry.
«Dirglielo? Non ho nessuna intenzione di dirglielo. Prima o poi lo capirà da solo, ma nel frattempo lasciamo che si tormenti ancora un po'...»
Gerry rise. «Ricordami di non mettermi mai contro di te.»
Gina gli afferrò la cravatta e lo tirò a sé. «Puoi giurarci, ragazzo. Non te lo dimenticare mai.»
E si baciarono.
FINE